20 Ottobre 2017

2002 / Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini

Lo spettacolo debutta il 22 giugno 2003 al Teatro Farnese di Parma, nell’ambito del Reggio Parma Festival.
Ronconi firma una duplice versione dell’opera del drammaturgo elisabettiano affidandola a due cast distinti, uno tutto al maschile, un altro misto con attori e attrici, per indagare la complessità delle relazioni e delle ambiguità che compongono la trama del testo.
Nella stagione 2003/2004 lo spettacolo è in tournée al Teatro Stabile di Torino, al Mercadante Teatro Stabile di Napoli e al Piccolo Teatro di MilLo spettacolo debutta il 6 luglio 2002 a Ferrara in uno scenario d’eccezione: Corso Ercole I d’Este è lastricato a partire da Palazzo dei Diamanti per oltre 60 metri con una pavimentazione a specchi, capace di moltiplicare all’infinito, grazie al gioco di immagini riflesse, un’atmosfera magica e sospesa.
Amor nello specchio, capolavoro del teatro barocco, si colloca nel percorso di ricerca di Luca Ronconi su Giovan Battista Andreini e vede come protagonista Mariangela Melato, che interpreta il personaggio di Florinda, affiancata da un ricco cast di attori professionisti e da dodici giovani attori.

Lo spettacolo è coprodotto dal Teatro Comunale di Ferrara e dal Centro Teatrale Santacristina con il sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara


Locandina/Programma
6 -11 luglio 2002
Palazzo dei Diamanti, Corso Duca Ercole I d’Este, Ferrara
Coproduzione Teatro Comunale di Ferrara e Centro teatrale Santacristina

Mariangela Melato in

Amor nello specchio
di Giovan Battista Andreini
Regia Luca Ronconi

Florinda Mariangela Melato
Bernetta serva Alvia Reale
Guerindo Simone Toni
Coradella servo Stefano Moretti
Sufronio Giovanni Battaglia
Silvio figlio Raffaele Esposito
Testuggine servo Dino Emilio Conti
Orimberto, uomo di Palazzo Sergio Leone
Lidia sola Manuela Mandracchia
Lelio Valentino Villa
Granello servo Pasquale Di Filippo
Eugenio , fratello simile di Lidia Salvatore Palombi
Latanzio governatore Luca Carboni
Notaio Marco Mattiuzzo
Mago Vladimiro Russo
Griffo Mirko Soldano
Orco Francesco Vitale
Spirito mostruoso Marco Mattiuzzo
Menippo Maurizio Ciccolella
Cruone Nicola Alberto Orofino
Spirito Francesca Fava

Progetto scenico Marco Rossi
Costumi Simone Valsecchi, Gianluca Sbicca
Luci Gianfranco Salvatori
Musiche a cura di Paolo Terni

Regista assistente Claudio Longhi

Consulenza tecnica Luciano Ferroni
Direttore di scena Rodolfo Santoni
Realizzazione allestimento tecnico Andrea Carletti, Paolo Cecchi

Responsabile produzione Alberto Benedetto

Responsabile organizzazione Bruna Grasso
Assistenti all’organizzazione Elena Bazzanini, Barbara Felisatti, Cristiano Mantovani
Consulenza alla progettazione Sandra Garimberti
Tecnico per la sicurezza Pietrobono Cavicchi

Materiali
Parole allo specchio. Intervista a Luca Ronconi di Gianfranco CapittaIl tempo e lo spazio allo specchio. Intervisa a Mariangela Melato di Gianfranco CapittaIsabella, Florinda e Lidia di Siro FerroneA proposito di Amor nello specchio di Claudio LonghiMetamorfosi del Dio Amore di Nadia Fusini

Luca Ronconi torna ad un autore che deve amare particolarmente, Giovan Battista Andreini, tanto da averne messo in scena negli anni tre grandi testi, La Centaura, Due commedie in commedia e Amor nello specchio. Quest’ultimo era stato uno dei suoi clamorosi saggi all’Accademia d’arte drammatica di Roma, ambientato nello scenario visionario del Teatro dei documenti di Luciano Damiani.

Come torna ora a questo testo, dopo più di quindici anni?
La città di Ferrara, in occasione del quinto centenario dell’arrivo di Lucrezia Borgia mi aveva chiesto se era possibile una riedizione dell’Orlando Furioso di Ariosto, dal momento che il nostro spettacolo nacque nel ’69 anche a Ferrara, che partecipò alla produzione. La cosa era irrealizzabile, e ho proposto allora questo testo di Andreini, anche se non ha un nesso diretto con Lucrezia Borgia, ma dove le figure femminili sono così centrali e importanti.

Questa sarà per Amor nello specchio la prima rappresentazione pubblica in epoca moderna, come era stato per le Due commedie in commedia. Cosa rende Andreini tanto vicino a Ronconi?
Evidentemente qualcosa c’è, tanto che mi riprometto prima o poi di fare una rappresentazione pubblica anche della Centaura, che è stato solo un saggio d’Accademia.

Oltre alla vicinanza d’epoca dell’autore, alla forte presenza femminile, lo spettacolo nasce in una edizione molto strettamente legata a Ferrara, fuori delle regole canoniche.
Ho pensato per questo di farlo in uno spazio così particolare come corso Ercole d’Este, spazio già parzialmente chiuso al traffico, che diventerà la vera “scena” di questo Amore, solo con i suoi edifici, senza scenografia, e con un intervento abbastanza determinante però, come il lastricare tutta la strada con una superficie di specchio, di fronte alla gradinata per il pubblico.

Questo per trasformare la realtà quotidiana, la vita della strada?
La commedia di Andreini, secondo me, soffrirebbe a essere rappresentata in una ambientazione “veristica”, in una “vera” strada” o in una “vera” piazza. Sono altre le sue particolarità: se ne rispecchia meglio il carattere ponendola in un luogo più astratto: meglio le piazze italiane di De Chirico che non l’ambientazione realistico/popolaresca di tanto teatro italiano del rinascimento, e anche del ‘600.

I tre classici greci andati in scena al Teatro greco di Siracusa hanno costituito nei mesi scorsi l’uscita di Ronconi, dopo un bel po’ di tempo, dalla sala teatrale. Questo sembra un passo ulteriore di fuga dal palcoscenico.
Veramente sono uscito, subito prima di Siracusa, con Infinities…

Ma la Bovisa era pur sempre un contenitore chiuso. L’aria aperta ha proprio un diverso effetto chimico.
Uno dei miei ultimi spettacoli all’aperto fu Utopia da Aristofane, che grazie alla pioggia che non lo fece rappresentare quasi mai, mi convinse a non fare mai più spettacoli all’aperto. Poi ne ho fatto uno solo, Fairy Queen a Boboli, che non ebbe per fortuna guai, ma dopo non ne ho più voluto sapere. Questa volta ci riprovo. D’altra parte, tutte e tre le volte che ho affrontato i testi di Andreini, sono uscito non tanto dall’edificio, quanto dal palcoscenico. Anche per le Due commedie, rappresentato a Venezia e a Roma dentro un teatro, gli attori recitavano di fatto su una scena che si estendeva quasi per tutta la platea svuotata. Quel teatro mi pare richieda proprio un’altra dislocazione.

Con i testi di Andreini Ronconi ha “battezzato” ogni volta nuove generazioni di attori: col saggio della Centaura uscì fuori quella, assai importante ancora oggi, che costituì il nucleo del Laboratorio di Prato; nelle Due commedie, tra gli altri, Popolizio e Zingaretti; nel primo Amor Galatea Ranzi. In questa occasione, generazioni diverse sono tutte assieme, quasi a confronto.
Questo vale per i ruoli femminili, i maschi sono quasi tutti molto giovani. Del resto, anche nel testo della commedia, l’opposizione tra il maschile e il femminile è cosi forte, che mi sembra proficuo segnalarlo anche in questo modo.

Veniamo alla commedia, che certo appare ancora oggi “scabrosa”.
Più che scabrosa, sorprendente. Non c’è il tipo di licenziosità dell’Aretino e di tanto teatro del ‘500 e del ‘600, e non si può neanche parlare di “stravaganza”. Si intitola Amor nello specchio, ma si potrebbe benissimo ribaltare il titolo ne Lo specchio d’amore. È a sua modo un catalogo di aberrazioni erotiche, ma senza nessuno spirito moralistico: è come se muovendo lo specchio, appaiano tante possibilità che di solito non si prendono in considerazione. A questo punto sarebbero leciti tipi diversi di lettura: quello patologico o psicologico, ad esempio, che certo la appesantirebbe, e che non e quello che facciamo, ma che pure sarebbe legittimato, perche il passaggio narcisismo — omosessualità — eterosessualità, è il passaggio vero della protagonista. Ma questa non è una commedia psicologica, quanto piuttosto una “casistica”. Infatti sono presenti anche il masochismo, la frigidità, tutto quello che è “corollario” o patologia della raffigurazione erotica. Per questo la commedia è così strana, qui tutto è trattato non con mano pesante, ma secondo il grande manierismo barocco. Per cui non si vuol dire niente al di fuori di quanto si sta dicendo…

Però per il pubblico, dai tempi dell’Andreini, c’e stato Freud, e Sade, e perfino lo strutturalismo…
Ma infatti gli altri testi di Andreini che ho messo in scena, a vario titolo e nei vari ambiti, hanno creato tutti grande sorpresa, quasi un effetto di scoperta, che secondo me non avrebbe avuto luogo qualche decennio fa. Proprio perchè certe discipline e certi procedimenti critici si sono arricchiti, o almeno modificati, rispetto a una certa tradizione ottocentesca (che da noi magari si è prolungata ancora nel ventesimo secolo…), è bene non forzare questi testi in una interpretazione patologica o quale sia, ma lasciar trasparire quasi in filigrana tutto quello che noi sappiamo, o almeno crediamo di sapere. Insomma lasciare che le nostre chiavi di lettura si sovrappongano al testo, e non sforzare l’operafacendola risultare pesante e impropria.

Quindi Ronconi affronta il testo libero da tutti gli eventuali equipaggiamenti critici…
Assolutamente. II primo da scartare e il cliché della commedia dell’arte, che in questo caso risulterebbe teatralmente consolatorio, perchè andremmo non sull’effetto sorpresa ma su un sicuro gradimento: “visto che piace sempre, facciamolo una volta di più. Nel testo sono presenti elementi di commedia dell’arte, ma bisogna sottolineare gli altri aspetti che abbiamo detto, evitando anche altri possibili clichés, come anche il melodramma. Per arrivare non al realismo, che è un procedimento stilistico, ma a ristabilire un criterio di verità del testo.

Andreini è una importante figura teatrale, con molte leggende personali e una vasta bibliografia accademica. Per Ronconi cosa rappresenta la sua scrittura?
Tra le moltissime che ha scritto, le tre su cui ho lavorato (ce ne sarebbe un’altra, un Don Giovanni) mi sembrano le più belle. Tutte e tre hanno un’invenzione teatrale di partenza assolutamente originale e geniale. La Centaura è la costruzione di una sorta di mostro (perché Centaura è la commedia, oltre che ipersonaggi) fatto di tre forme teatrali, commedia, pastorale e tragedia, legato tutto nella vicenda di un gruppo di personaggi che attraversano nella loro vita scenica le tre forme di rappresentazione. Nelle Due commedie in commedia, dei personaggi riconoscono la propria vicenda, il proprio passato rimosso, all’interno delle commedie che essi stessi fanno rappresentare, e si trovano a rivivere le proprie esperienze. Amor nello specchio è una sorta di catalogo di riflessioni e rifrazioni erotiche dentro uno specchio. Sono tutte e tre delle intuizioni teatrali davvero molto geniali.

Qual è invece il suo tessuto linguistico, che nel teatro di Ronconi si pone istintivamente in quell’arco che va dal Candelaio di Giordano Bruno al Pasticciaccio di Gadda?
Il linguaggio in cui quelle situazioni sono espresse, ha quasi sempre del centone (e in questo senso si può parlare di commedia dell’arte) perchè è un insieme di luoghi topici desunti da altri testi. Per fare un esempio, proprio in Amor nello specchio, ci sono dei pezzi che paiono estratti dal Mercante di Venezia o dalla Dodicesima notte di Shakespeare, e ci sono debiti verso una infinità di altri autori. Andreini è stato anche un lettore onnivoro, e costruisce questa specie di monstruum teatrale che è un coacervo di cose esistenti altrove. Questo permette una sorta di diaspora verso altri mondi e altre possibilità: un esempio per tutti, quando Orimberto dice di sentire un diavolo che gli dice di restare e un altro che gli dice di andare, si sente subito l’eco di Lancillotto nel Mercante di Venezia, e di tutti i suoi precedenti. È lo stesso procedimento usato dagli elisabettiani, e dallo stesso Shakespeare. Le differenze sono di qualità e raffinatezza letteraria, non di scelta drammaturgica.

Come possono prendere corpo le evocazioni di uno specchio, che sono di per sè evanescenti?
Noi siamo abituati a immaginarci il personaggio teatrale comeuna raffigurazione fedele della persona umana. Questo ha funzionato nei secoli scorsi finchè ha avuto un valore di sorpresa edi scoperta, ma quando diventa una codificazione generalizzante, può asfissiare la drammaturgia, anche perchè ci accorgiamoche non è vero, che è solo un luogo comune. Qui c’è invece un insieme drammaturgico che non propone dei personaggi ma delle figure. È una cosa davvero insolita, che permette però di lavorare con gli attori non alla costruzione di personaggi obbligatoriamente antropomorfi: per me è insolito e anche divertente lavorare all’incontro tra una persona vera come è un attore con una figura artificiale come lo sono quelle delle commedie di Andreini.

Sembrano procedimenti che rinviano alla visione cinematografica piuttosto che al teatro come solitamente si intende. E forse è qualcosa che già era presente sempre più negli ultimi spettacoli di Ronconi.
Nei miei spettacoli (e negli ultimi di più) sono le scene a muoversi, non tanto per un procedimento cinematografico, quando per evitare che le scene debbano tutte restare compresenti per tutta la durata di un atto, anche quando non sono più necessarie, cosa che a me da terribilmente fastidio. In questa occasione invece ci troviamo in un luogo dato e immodificabile, che deve essere usato per quello che e. E’ quasi impossibile trovarsi su una strada (che peraltro non necessariamente è una strada, lo si deduce solo dalle indicazioni), e fare finta di trovarsi su un palcoscenico: bisogna inventare un modo originale per gestire spazi e comportamenti.

Avete inventato anche un modo produttivo inusuale per questo, che dopo tanti anni è il primo lavoro di Ronconi fuori del teatro pubblico o in ogni caso istituzionale.
Abbiamo costituito con Roberta Carlotto e Mariangela Melato una associazione, di cui io sono direttore artistico, proprio per avere un margine di libertà, o un limite di responsabilità, solo verso noi stessi, che invece lavorando in istituzioni pubbliche e più limitato. Una cosa che si fa non solo perchè ci si crede, ma anche per il piacere di farla, e per il piacere di provare a lavorare in forme molto anomale: anche perchè i nostri mezzi sono estremamente limitati.

E questo da più libertà?
Sì, perchè la commissione da parte della città di Ferrara (città che ha anche un teatro particolarmente aperto e efficiente) aumenta la nostra responsabilità, e quindi anche la nostra libertà. I vincoli ci sono, ma in compenso non abbiamo “ricatti”, come quello sempre esistente del circuito per il quale prevedere un lavoro. Amor nello specchio verrà ripreso l’anno prossimo, ma in condizioni analoghe a quelle che abbiamo ora a Ferrara. Tra gli altri scopi della nostra associazione c’è quello di realizzare certi spettacoli, in assoluta liberta dai condizionamenti di strutture molto grosse. La nostra “povertà” non è una scelta stilistica, ma semplicemente una limitazione oggettiva. La situazione del nostro teatro è tale, che noi vogliamo vedere se si possono prospettare formule produttive non necessariamente finalizzate allo sfruttamento intensivo di un lavoro. A Ferrara ci è stata avanzata la richiesta di questo spettacolo perchè ce ne era la necessità, non èdetto ci sia la stessa necessità in tutti gli altri posti dove si faccia teatro. Avrà senso farlo dove si ricreeranno le medesime condizioni di necessità.

Mariangela Melato era Olimpia nella prima grande esplosione spettacolare di Ronconi, l’Orlando Furioso nato anche a Ferrara. Dopo tanti ruoli importanti e bizzarri col regista, torna con lui per Amor nello specchio di Andreini.
È un ritorno alle origini, o un altro tassello in quella personale galleria di personaggi eccentrici che costituiscono il suo peculiare percorso teatrale con Ronconi?
In effetti questo ritorno a Ferrara è una ventata di giovinezza regalata, o di “vecchiaia” a tratti, perchè si sentono le differenze naturalmente, ahimè, anche in noi. Per me è ugualmente straordinario essere qua, insieme a lui, sentirlo lavorare con la stessa mostruosa abilità, e soprattutto con la stessa passione, e ritrovarmi la stessa passione e lo stesso divertimento, nel condividere il lavoro con la persona più geniale che io abbia avuto la fortuna di incontrare — e ne ho incontrati tanti di registi. È un regalo quindi, una festa e un gioco che hanno anche momenti di fatica e di impegno. Anche quanto alla composizione della compagnia, il fatto che siano tutti inevitabilmente più giovani, invece di impensierirmi non lo sento assolutamente (già ai tempi del Lutto si addice ad Elettra mia madre, adorabile signora milanese e burbera, commentò seccamente “Questa volta sei la piu vecchia”). È una bella sferzata di gioventù, non mi sento una ottantenne: è un ritorno all’infanzia. Credo che Ronconi rappresenti per me questo: o mi fa fare la bambina piccolissima, o mi precipita in un clima di studio e di apprendimento che mi fa tornare all’infanzia. Qualche volta con altri registi mi sento più sicura e tranquilla, per la verità, con lui invece mi trovo a dover cercare insieme, e scatta una complicità fantastica.

Pensando al suo lavoro con Ronconi, vengono immediatamente in mente la bambina Maisie di James, ma anche la vecchissima signora Makropoulos, e la madre senza tempo delLutto si addice ad Elettra, tutte creature col problema dell’età, cosa che non riguarda e non suscita nella realtà Mariangela Melato.
Sì è curioso, perchè io nella mia vita non ho questo problema. Potrei sentirmi ottant’anni come venti o come quattrordici, ma non ho una connotazione dell’età, neanche fisica. Se qualche volta vorrei sentirmi più giovane, è solo per non sentire un acciacco, altrimenti mi piaccio più adesso. Entro in quelle età solo per impossessarmi di un personaggio, ma non ho l’incubo della giovinezza. Forse è questo che scatena Luca nei miei confronti: un discorso sul tempo. Possiamo dire che io e Luca parliamo insieme del tempo.

Che è un elemento fondamentale del teatro…
Direi di sì. Solo con lui mi trovo sbalzata, avanti e indietro, comunque a “pensare”. Continuo a vederlo, approfondito e migliorato nella sua umanità, ma esattamente come un tempo, e ho il sogno di aver anch’io fatto un percorso. Un po’ di paura ho avuto quando ci siamo ritrovati per Il caso Makropoulos: avevamo avuto grandi successi con l’Orlando e con La tragedia del Vendicatore, ero spaventata dal fatto che, ormai affermato come un maestro, potesse essere cambiato. Poi ho scoperto che anche lui temeva la stessa cosa di me, che nel frattempo avevo fatto il cinema, ed in effetti potevo essere diventata “un po’ stronza”. Invece ci siamo ritrovati benissimo, “assolutamente come allora”.

Mariangela Melato cita ilVendicatore di Tourneur, sottovalutata esplosione elisabettiana all’Eliseo di ruoli e desideri sessuali, di conflitti insanabili e mutanti. Anche lì c’erano, come in Andreini, delle stravaganze erotiche non piccole.
Sì, ero un uomo, e lussurioso, e i ruoli erano sessualmente particolari. Nessun altro regista mi regala queste stravaganze. Che poi non sono stravaganze, perchè sono sempre affrontate con una grandissima profondità, con una analisi patologica giusta, mai come ricerca di pura “leggerezza”. Gli è scappato solo Tango barbaro di Copi, dove facevo un travestito vero, che però era un’altra cosa, era solo fisicamente diverso, ma per il resto era molto esplicito.

In Amor nello specchio invece tutti i personaggi si muovono in una sorta di interiore campo minato e cangiante di sessi, di ruoli, di identità, di desideri.
Sì, ieri ho provato per la prima volta un monologo, e devo confessare il mio imbarazzo totale nel fare per la prima volta un monologo, vero, guardandomi in uno specchio, vero; e vedere la mia vera faccia che recita la faccia di una che è innamorata di sè. Sembra una sciocchezza, e invece è stato uno shock. Ho finito piena di rossore, imbarazzatissima, tanto che ho chiesto di coprirmi lo specchio: non potevo guardare e dire che ero pazza di me. È stato un imbarazzo insostenibile, quindi è vero che ce ne sono sempre di nuove.
È un turbamento che potrebbe assalire anche il pubblico, in questo gioco di specchi senza fine.
È un gioco di specchi dentro e fuori di noi, che ci circonda perche l’intero universo dello spettacolo è di specchio. Il mio è un ruolo che sfugge, e Ronconi affronta questo teatro “barocco” con una capacità di lettura stupefacente. Io avevo letto il testo un paio d’anni fa, mi aveva affascinato, ma in fondo secondo una lettura “leggera”; Ronconi, come spesso fa, ora sta tirando fuori una lettura misteriosa, profondissima, unica. E io mi rendo conto che non può essere che così.

Rispetto al testo e alle sue parole, le ultime creature anomale di Mariangela Melato parlavano tutte nella traduzione dall’originale straniero. La scrittura di Andreini invece è proprio quella, molto particolare.
Molto particolare, molto complicata, e anche molto contorta, a tratti quasi indecifrabile. Con una esigenza ritmica propria. È un italiano che ha origini dialettali, anche se non specificate, con radici mantovane e forse qualche influenza veneta, ma nello stesso tempo è altissimo. Pur parlando di perversioni, di diversità radicali, è un discorso di altissimo livello. Come in quelle scene d’amore, dove l’amore è solo professato, mentale, è una possessione amorosa, un contagio che passa da uno all’altro, pur avendo ogni personaggio un modo diverso di vedere l’amore, e soprattutto un modo diverso di esserne contagiato. Ci sono bellissime scene d’amore, scritte in un modo assolutamente “poetico”, ma resta un testo molto difficile, dove non ci sono quasi mai dialoghi, e le persone parlano per grumi, al massimo per monologhi, senza mai toccare veramente l’altro. Cose che unite alla complessità di ogni personaggio, alla sua ricchezza di sfumature, rendono il nostro lavoro quasi mostruoso. Quello che a prima vista poteva passare per “commedia dell’arte”, e in realtà molto più complesso, è un pezzo d’arte, semplicemente.

Dove l’attore non ha “appoggi” narrativi, di nessun tipo.
Non solo, ma non ci saranno tavoli e sedie, ventagli e guantini. Personalmente, mi piace molto lavorare nel niente, perchè sono sicura che in teatro è il corpo della persona che deve essere tutto. Mi piace agire in un teatro spoglio, detesto lavorare ingombra di orpelli, e fortunatamente non mi è capitato quasi mai. Mi piace piuttosto lo “spazio”, come piace a Ronconi, e questa volta siamo tutti su una strada. E su quella strada saremo, senza la “sicurezza” del palcoscenico.

Lo spazio è un altro carattere forte di questa nuova sfida.
Sì, perchè è vero che stiamo “per strada”, ma è quella strada, davanti al palazzo dei Diamanti, uno spazio lungo sessanta metri, dove non ci saranno le uscite convenzionali delle quinte, ma le case di appartenenza di ognuno, e non potremo che uscire ed entrare di lì.

Dopo tante decine di parti e ruoli sullo spazio convenzionale del palcoscenico, ora Mariangela Melato si misura con la città, vera.
Sono sempre rimasta affascinata, in città come Edimburgo o Parigi, incontrando gli artisti di strada, fantastici. E stupidamente, forse per sentirmi più giovane, ho sempre rimpianto che essendo riuscita a fare il cinema, il teatro, la televisione e perfino il cabaret, e perfino a cantare, di non aver la forza di fare questa esperienza anch’io. Se fossi più giovane, avessi vent’anni, io partirei domani per fare l’artista di strada, non ho dubbi. Forse Ronconi, senza saperlo, ha capito questo mio desiderio, e sebbene inserita in uno spettacolo, mi dà la possibilità di realizzarmi come artista di strada.

Aveva ventotto anni Giovan Battista Andreini quando fu raggiunto dalla notizia che la madre, l’attrice Isabella Andreini, era morta a Lione di ritorno da un ciclo di rappresentazioni tenute alla corte di Francia. Quel giorno, il 4 giugno 1604, segnò la fine della più celebre compagnia teatrale del tempo, i Comici Gelosi, che Isabella aveva guidato per anni insieme al marito Francesco, in arte Capitan Spavento, ma segnò anche l’affermazione definitiva del mito della prima grande Diva del teatro italiano. All’edificazione del monumento lavorarono, insieme, il marito e ilfiglio. Il primo, abbandonato il palcoscenico, cominciò un’intensa attività editoriale, ristampando più volte le principali opere di Isabella (la pastorale Mirtilla, le Rime, le Lettere); il secondo, pubblicando una corona di rime funebri in suo onore (II Pianto d’Apollo, Milano, 1606) e, soprattutto, raccogliendone l’eredità scenica. Se la madre aveva fatto parte dell’Accademica degli Intenti di Padova, Giovan Battista scelse per i suoi debutti l’Accademia degli Spensierati di Firenze. Se la madre era stata un’attrice “docte et bien disante” – come la definirono i francesi specializzata nel ruolo di “amorosa”, Giovan Battista si specializzò allora nel ruolo di “amoroso” con il nome d’arte di Lelio. Se i meriti artistici del padre e della madre erano stati ingranditi dall’essere una coppia nel teatro e nella vita, anche Giovan Battista puntò molto sulla sua sposa e compagna d’Arte, la milanese Virginia Ramponi, in arte conosciuta come Florinda: a lei dedicherà numerose commedie, anche in seguito al successo che la donna aveva conseguito, nel 1608, interpretando e cantando la parte di Arianna nell’omonima opera musicale di Ottavio Rinuccini e Claudio Monteverdi. Da quel momento Florinda divenne l’attrice-simbolo della drammaturgia di Andreini, capocomica con Lelio della compagnia dei Fedeli, reincarnazione del mito della Diva Isabella. Naturalmente il vecchio Francesco Andreini favorì quel disegno e mise la sua esperienza e le sue “entrature” presso le corti di Mantova, Firenze e Parigi al servizio della nuova formazione.
Giovan Battista aveva fatto studi regolari in un collegio di Bologna, dove aveva imparato a imitare i testi canonici della poesia e della prosa italiana (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto), le fonti filosofiche della tradizione antica (prima di tutto Platone) e quelle della tradizione cristiana (dai Padri della Chiesa a San Tommaso); dal repertorio materno derivòuna conoscenza diretta della più recente drammaturgia pastorale (dall’Aminta del Tasso alla Mirtilla al Pastor fido di Giovan Battista Guarini). Questa immaginaria biblioteca fu la base delle sue opere appartenenti al genere alto (dai numerosi trattati ai poemi alle sacre rappresentazioni), ma anche, in parte, il sostrato delle commedie che, a partire dalla Turca del 1611, cominciò a pubblicare in forma di libro trascrivendo in forma distesa i canovacci rappresentati. Se per le parti degli zanni e delle servette l’Andreini seppe rubare agli attori della sua compagnia i segreti delle loro improvvisazioni (in particolare quelle del grande Tristano Martinelli, il mantovano che già dal 1584 aveva inventato la maschera di Arlecchino), per le parti degli “amorosi” (quelle interpretate da lui stesso come Lelio e dalla moglie come Florinda) le fonti d’imitazione furono invece decisamente “alte”.
Nelle prime prove drammaturgiche di Andreini la protagonista è sempre Virginia Ramponi. Nei panni della Maddalena dell’omonima sacra rappresentazione o della Florinda delle commedie, la “prima amorosa” vive storie di metamorfosi e di ascesa. Inizialmente peccatrice o schiava o di bassa condizione, si rivela progressivamente come un’anima nobile, di alta spiritualità, quando non addirittura santa. Qualunque sia il livello dei lazzi volgari e delle oscenità che stanno nel mezzo del dramma, il disegno generale è rappresentato da una parabola edificante che dimostra, attraverso le peripezie della storia rappresentata, le qualità sublimi della donna-attrice, capace di trasformare il vile mestiere del recitare, che gli uomini di Chiesa equiparavano alla prostituzione, in una nobile attività spirituale. La donna-attrice, sia essa la moglie Florinda o la madre Isabella, è descritta come un’eroina intellettuale, quasi una martire del lavoro: l’attrice “in retirata camera retirandosi, altro non fa che dottrinar se stessa con que’ savi discorsi che di recitar se le aspetta, e corregger l’azzioni sue col mortificarsi nella poca e nella molta lubricità del gestire”; una volta finito lo spettacolo “stanca alle stanze s’invia e si ricovra, […] udito, veduto quello che studiarono il giorno i pargoletti figliuoli, ecco della cena l’ora soprarriva e del riposo l’ora. Ecco la misera, nelle fatiche ognor sommersa, nel letto stesso angusto ricovero dell’auguste fatiche, all’acceso lume dar lume maggiore con la virtu a se stessa, altre core nuove studiando, al nuovo tempo per rappresentarle, alla donnesca riputazione per accrescer giornalmente vanti maggiori” (La Ferza, 1625).
Pubblicando commedie e trattati intorno a questo tema, Giovan Battista, non solo proseguiva nel culto “mariano” dellamadre, ma anche perfezionava la strategia promozionale avviata da Francesco e Isabella: otteneva la tolleranza delle gerarchie ecclestiastiche, conquistava la protezione dei principi, diventava il campione dell’arte teatrale finalmente redenta.
La vicenda biografica e personale di Lelio si complicò, mettendo a dura prova la sua capacità di conciliare il corpo e lo spirito, quando, all’inizio degli anni Venti del Seicento, il suo successo giunse al culmine. I suoi comici Fedeli avevano sconfitto tutti i concorrenti: gli Accesi di Pier Maria Cecchini erano stati scalzati dal ruolo di compagnia favorita del duca di Mantova, la compagnia dei Confidenti di Flaminio Scala si sarebbe presto dissolta per la morte del protettore, don Giovanni dei Medici. La famiglia Andreini fu dunque chiamata dalla regina madre Maria dei Medici e da Luigi XIII a guidare la formazione che avrebbe dovuto tenere un lungo e fruttuoso ciclo di recite a Parigi e nelle residenze reali della monarchia, a partire dal gennaio 1621. I due avevano partecipato anche a precedenti tournées, ma solo in questa occasione si videro assegnata la funzione di “capocomici” assoluti.
Giovan Battista aveva allora 44 anni, Virginia Ramponi 38. C’era in compagnia un’altra attrice più giovane e ambiziosa, anche lei di nome Virginia, in arte nota come Lidia, specializzata da almeno dieci anni in parti di servetta, sposata con un tal Baldo Rotari. Tra lei e il capocomico, durante il viaggio transalpino, nacque una storia d’amore tanto prepotente quanto evidente che rischiò di sfasciare la compagnia. Invano il vecchio Francesco cercò di placare la gelosia di Florinda, Giovan Battista ci riuscì invece con abilità di drammaturgo. Lo scandalo di un ménage a trois che gli attori rivali tentarono di alimentare, venne messo a tacere come in una commedia ben scritta. Naturalmente Lidia fece presto carriera. Venne promossa “seconda amorosa” e ebbe parti significative in tutte le pièces del periodo francese: La Centaura, La Ferinda, Amor nello specchio, La Sultana, Li duo Lelii simili; in quest’ultima addirittura la gerarchia delle parti venne capovolta e la nuova diva ebbe il primo piano rispetto alla vecchia. Sarà bene ricordare che la passione del drammaturgo non svanì tanto presto: Lelio e Lidia cominceranno a vivere insieme dopo la morte dei rispettivi coniugi e infine si sposeranno. In quest’ultima fase della produzione andreiniana (a partire dagli anni Trenta) la terza donna della sua vita interpreterà il testo che aveva attraversato tutta la biografia dell’attore-autore, La Maddalena lasciva e penitente (rappresentata a Milano, due anni prima della morte, nel 1652).
Amor nello specchio è la commedia centrale del periodo parigino quando in compagnia e nella vita dei tre attori l’equilibrio è instabile, le ferite amorose ancora aperte e il monumento dell’attrice peccatrice e santa non ancora ultimato. Lidia, Lelio e Florinda si fronteggiano infatti nella finzione come nella vita, ma a differenza della vita, Lidia e Florinda non si odiano, anzi si amano. Di un amore trasgressivo che dura lo spazio di poche scene, poichè alla conclusione della storia, quella loro unione cede il passo a un più regolare e coniugale epilogo. La città celebrerà il valore cristiano e riproduttivo delle nozze eterosessuali, anche se al drammaturgo resta la soddisfazione di avere risarcito le angosce dell’adulterio in una ricomposizione fantastica del terzetto. Secondo quanto avevano insegnato la madre Isabella e l’estetica neoplatonica la scala verso l’armonia della città terrena non può realizzarsi che a partire dal basso e solo la contemperazione di corpo e anima è segno di perfezione. Conciliando la propria commedia umana e il sogno di redenzione del teatro, Andreini realizza un capolavoro di architettura barocca.
Parigi, 18 marzo 1622: mentre dal cuore dell’Europa giungono sordi e minacciosi gli echi della Guerra dei Trent’anni e la Francia, conclusasi l’età buia e sanguinosa dei conflitti di religione, si avvia, sotto la guida di Luigi XIII, al trionfo della monarchia assoluta, firmando la dedica all’Illustrissimo signore François de Bassompierre (1579-1646), affascinante e chiacchieratissimo Maresciallo del Regno, Giovan Battista Andreini, quondamLelio, beniamino delle platee italiane e d’oltralpe, nel pieno fervore di una stagione di intensa creatività, licenzia la sua terza fatica d’autore del suo secondo, fortunato, soggiorno alla corte dei Borbone: Amor nello specchio, commedia pubblicata “appresso” lo stampatore “Nicolas della Vigna”, attivo “nella strada Cloopina, allo scudo di Francia, vicino al Piccolo Navarro”.
Storia avventurosa degli amori illeciti della bella Florinda – sulle scene della capitale di Francia Virginia Ramponi, divina moglie dell’attore/drammaturgo – passata, galeotto un innocente e quanto mai perverso “picciolo specchio”, da uno sfrenato culto di sèad un’altrettanto incontenibile passione per la tempestosa vicina di casa Lidia – ruolo interpretato, nella compagnia dei Fedeli, dalla seducente Virginia Rotari, amante di Andreini -, ad una lettura etimologicamente superficiale, e decisamente postfactum, Amor nello specchio potrebbe “apparire” un postremo e un po’ bislacco derivato della commedia romanzesca rinascimentale, modello Accademia degli Intronati, rivisitata secondo le consuetudini decisamente commerciali ormai sclerotizzatesi all’altezza del terzo decennio del XVII secolo in facili clichés, con ampie concessioni al gusto barocco per la provocazione libertina e per una concettosità oggidì lambiccata e al limite della bizzarria (a distanza di oltre mezzo secolo la severa “ferza” di Croce, ancora docet!). A ben guardare, però, le abitudini drammaturgiche dei comici di professione del tardo Cinquecento, primo Seicento, non offrono certo il metro di giudizio più capace a stimare l’operato di un autore-attore profondamente conscio del valore squisitamente letterario del propriolavoro quale Andreini, noto per aver distrutto, “ardendo, e avvampando di sdegno”, i cinquecento esemplari della prima tiratura fiorentina della sua prima composizione drammatica, la tragedia Florinda, perchè inquinati, al quarto e quinto atto, dai troppi errori del “male accorto Stampatore” VolcmarTiman, e per di più sempre attivamente impegnato in un’accurata ed astuta campagna di riqualificazione sociale della propria schiatta, pure attraverso il fraudolento restauro di un improbabile albero genealogico nobiliare con radici nella gens “de’ Cerrachi da Pistoia, ora detti dal Gallo”. Ne, tanto meno, si renderebbe giustizia alla complessità della commedia dell’immaginifico Lelio, liquidandone l’estremismo e la singolarità – e dei toni e della gestione della fabula – col trascriverli sotto la generica rubrica esplicativa, tutta neoidealista (o, perchè no?, neoclassicista), di `nefandi exempla di stravaganza secentista o esaurendone il significato in uno scherzo un po’ osé, di ribelle ésprit gaulois, poco consono a certe accensioni inequivocabilmente controriformate della penna di Giovan Battista.
Conviene allora interrogare l’autore e la cultura del suo tempo per tentare di ricostruire la cornice estetico-concettualeentro cui racchiudere la sfolgorante lamina dell’amoroso Specchio andreiniano e tentare così di inquadrare gli enigmi dello scandaloso copione.
Ad una ricognizione anche sommaria dell’opera di Andreini risulta che più che i lazzi e i canovacci dei più o meno noti e reputati colleghi comici dell’arte, peraltro pedestremente ricopiati da quell’acuto imitatore, a non dir astuto ladro, che fu Lelio non a caso reo confesso di essere bandito o per lo meno a fianco dello straordinario patrimonio di invenzioni teatrali degli attori professionisti suoi predecessori, collaboratori e rivali, cui Giovan Battista attinse a piene mani anche per la composizione della commedia di cui ci si occupa, i veri punti di riferimento della drammaturgia dell’autore sono da ricercarsi nel grande teatro europeo a cavallo tra Cinque e Seicento. Insieme a Elburlador de Sevilla y Convidado de piedra di Tirso da Molina (1630), fin troppo ovvio archetipo del Convitato di Pietra e del Nuovo Risarcito Convitato di Pietra andreiniani (entrambi datati 1651) e al grande modello del Trauerspiel tedesco, profondamente affine ai drammi sacri dell’autore, è forse la scena elisabettiana, in primis il teatro di Shakespeare, la più efficace pietra del paragone per render ragione della produzione diLelio. A Midsummer-night’sDream (1595/96) si specchia ne Li duo baci (1634) come The Tempest (1611/12) ne L’Ismenia (1639); ma ancora precisissimi riflessi della fantasia del bardo si scorgono nello stesso Amor nello specchio, opera non a caso tramata di citazioni dal Candelaio di Giordano Bruno, la più elisabettiana delle commedie del nostro Cinquecento: difficile ad esempio non ravvisare nello sfuggente personaggio del cosiddetto “uomo di Palazzo” Orimberto certi tratti del Malvolio di Twelfth Night (1599/1600).
Trascrivendo il rapinoso gioco di travestimenti e di scambi di persona della commedia d’equivoci elisabettiana, peraltro a propria volta figlio della tradizione novellistica italiota dei Boccaccio e dei Bandello, in un sontuoso – per quanto un po’ scolastico e in odor di cartapesta – palcoscenico verbale, che pur non avendo nulla a che spartire con l’inimitabile mobilità e l’ineguagliabile grandezza dell’eloquio shakespeariano, combinando la congenita inclinazione retorico-curiale della pristina codificazione della prosa nazionale con la poetica squisitamente secentesca della “meraviglia” ne mima l’ossessione figurale, la manieristica mania dell’ipertrofico ornatus, Andreini, come i suoi più reputati colleghi europei, fa della metafora – la caleidoscopica metafora barocca – la matrice generativa, e fatalmente trasformazionale, della propria scrittura per la scena, ingegnosa sin quasi alla farragine.
Caratteristica precipua della metafora, a prestar fede ad un suo fine cultore qual fu Tesauro, e la sua “brevita” semanticoespressiva, la sua capacità, cioè, di costipare “in una voce sola più d’un concetto”. Se il “paragone” infatti – si legge nel Cannocchiale aristotelico (1654 e 1670) – presenta “successivamente” tutti gli “obietti” designati dallo scrittore “con le sue proprie parole”, “la metafora tutti a stretta li rinzeppa in un vocabulo e quasi in miraculoso modo gli ti fa travedere l’un dentro all’altro”, “onde maggiore è il tuo diletto, nella maniera che più curiosa e piacevol cosa è mirar molti obietti per un istraforo di perspettiva, che se gli originali medesimi ti venisser passando dinanzi agli occhi”. Ponendosi sotto l’egida di Circe e del pavone, proteiformi numi della cultura secentesca sedotta dall’iconologia, dall’emblematica e dall’enigmistica, il metaforico teatro di Andreini, silloge di arditi scorci retorici e narrativi al limite dell’anamorfosi, si organizza dunque per concrezione di immagini e proliferazioni di piani: non già aristotelica successione sintagmatica di episodi, ma barocca sovrapposizione paradigmatica en trompe l’oeil di finzioni e rappresentazioni, la drammaturgia di Andreini, lungi dal dipanarsi in classicistico arco drammatico, si coniuga e si annoda in geometrici algoritmi di andamento labirintico.
Debitamente collocato nel repertorio teatrale che più gli conviene e passato al vaglio della sofisticata retorica del XVII secolo, più prossima all’antropologia del bene dicere che alla mera precettistica di stile, tra i bagliori accecanti della sua algida testura scenica, ad uno sguardo attento Amor nello specchio disvelaun’impalpabile trama di riposte potenzialità di senso. A ponderata analisi, o secentesca notomia, i capitoli della licenziosa Education sentimentale di Florinda, trascorrente dal narcisismo all’omosessualità per poi trovare tra le braccia del sedicente ermafrodito Eugenio le gioie dell’amore secondo natura, si sdoppiano in prima battuta nelle stazioni di riscatto di unmetateatrale dramma di redenzione della figura dell’attrice, secondo il progetto di riforma della prassi teatrale caro a GiovanBattista, tratto e cifrato dall’autore dal e nel mito della Maddalena che accompagna in santissima trinità l’intera carriera di poeta di Lelio (del 1610 e la prima edizione del poema in ottave La Maddalena, del 1617 e la sacra rappresentazione La Maddalena e del 1652 e l”azzione drammatica e divota” La Maddalena lasciva e penitents).
In Amor nello specchio le stazioni del “mistero” di “ascesa” dell’attrice dalla condizione di peccatrice/prostituta a quella disanta/intellettuale, si traducono poi nelle pagine di un’autobiografia ambiguamente sospesa tra il fantastico e il vissuto, che, fondendo, come accade in molti copioni coevi dell’arte, la cronaca del quotidiano degli attori all’immaginazione, pare proporsi, come obiettivo primo, un’utopica risoluzione, per lo meno nella finzione della scena, dei veri conflitti tra moglie ed amante, patiti dall’autore in prima persona nel concreto e doloroso farsi del proprio vissuto.
Sul filo del piacevole e conturbante intreccio, le note di diario dell’ “amoroso” Lelio, a metà strada tra realtà e finzione, trapassano quindi in un’accalorata apologia del teatro,devotamente riconosciuto come luogo deputato alla rappresentazione del vizio solo in quanto morigerante “speculum vitae humanae”, a sua volta declinata in inventario di un abnorme “teatro dell’amore” – nell’accezione secentesca di teatro come “mostra, esposizione, raccolta ordinata, esibizione” tutto volto a catalogare gli svariati ed aberranti casi della passione amorosa. E ancora i bilanci dello studio andreiniano sull’Eros si scoprono essere i paragrafi di un tractatus di filosofia neoplatonica che celebra la sintesi dello spirito e della carne, la ricomposizione dellaparte e del discorde nella mirabile completezza dell’uno. La rassicurante summa platonicheggiante della possanza riunificatricedell’Amore cifrata nel romance di Florinda, si capovolge inoltre, chissà se in ultimo, in una desolata meditazione barocca sulla vanità del vivere.Posseduti, come nel più classico canone del tragedy elisabettiano, da una passione che li eccede e li travolge fino al punto di sconvolgerne il linguaggio – più ancora che abbandono al magico incanto della poesia o compiaciuto ammicco alla tradizione burlesca, il furor metaforico dei personaggi di Amor nello specchio nel suo svariare dal registro sublime di Lelio e Florinda aquello triviale di Bernetta e Coradella o a quello rigorosamente fisiologico di Granello sembra infatti il fedele diagramma della psicopatologia dell’eloquio di figure parlate da un desiderio loro ignoto – i protagonisti della “commedia amorosissima” di Andreini si rincorrono in effetti sulla scena alla ricerca d’Amore, più ancor che del loro amore, in un impetuoso girotondo, destinato a rivelarsi, al cader delle illusioni, macabro Totentanz. Come insegna l’inquietante parabola-parentesi di magie della diabolica notte degli intrighi che fa da spartiacque alla vicenda – vera e propria commedia in commedia, spettacolare mise en abime del dramma, nel corso della quale lo stesso Amor nello specchio è chiamato a guardarsi allo specchio – le amorose follie di Lelio o Florinda, di Lidia o Orimberto, ridicolosi sintomi della tragica follia di un mondo che pare aver smarrito il proprio baricentro, figura topica della cultura barocca, nella loro inconsistenza sono allegoria dell’assoluta fragilità del vivere, della natura effimera di ogni apparenza: “vanitas vanitatum”…
Quanto più sembrano astratte e convenzionali, tanto più – dunque – le figure protagoniste di Amor nello specchio rivelano un fondo di urgente e universale verità: nel nostro futuribile presente di senso telematico e realtà virtuali, lo specchio di Andreini, dalla sua remota alterità, non parrebbe porgerci un’inquietante profezia?
Di battuta in battuta, di scena in scena, di atto in atto, di riflesso in riflesso, “obietti”, “concetti”, immagini, si moltiplicano all’infinito in lieto carosello: a quasi quattro secoli dal suo debutto, il vago “caso amoroso e improvviso” messo in scena da Andreini, resta enigmatico specchio in cui cercare, forse invano, la verità del proprio volto.
Verso la fine di Amor nello specchio, alla scena nona dell’atto quinto, il mago Arsafat dichiara che partirà per l’Inghilterra. II re di quelle parti lo chiama, essendo venuto a conoscenza dell’eccellenza sua (di cui per la verità non ha dato prova ai nostri occhi). Comunque, se così davvero fosse, troverebbe Giacomo I ad attenderlo, un re filosofo, un re intellettuale, con idee ben chiare sulla magia, sulla stregoneria, e riguardo al teatro. E probabilmente sarebbe anche in quell’isola impiegato per mutare l’odio in amore, per ordire trame amorose perchè anche nell’isola che fu di Elisabetta e ora e di Giacomo le commedie non parlano che d’amore, d’amore contrastato, d’amore rifiutato, e di vari adescamenti e inganni e travestimenti.
Nelle sue commedie Shakespeare gioca in modo incantevole con le medesime convenzioni. Basta pensare alla Dodicesima notte, a Come vi piace, due commedie straordinarie in cui ritroviamo i motivi del rifiuto e della vittoria d’amore, del mascheramento e del disvelamento sessuale, che sono al cuore della commedia di Andreini.
Sul palcoscenico inglese, però, il gioco del travestimento arriva a iperboli e paradossi travolgenti, a partire dal trucco base, ovvero dal fatto che in scena c’è un solo corpo, sessuato al maschile. 0 meglio, il corpo dell’attore si divide in due categorie: è maschio, e nè maschio/nè femmina, ovvero fanciullo. II corpo maschio fa l’uomo, il corpo efebico fa la donna. Così si dividono le parti in commedia. Con straordinari effetti di equivoci, quando il corpo efebico recita la parte di una donna che si traveste da uomo, facendo vorticare la verità e la menzogna del sesso, del piacere e dell’identità sessuale su una scala parossistica di doppi sensi.
Nella Dodicesima notte come non avvertire brividi di eccitazione quando Viola, travestita da Cesario, si presenta al duca Orsino, l’amante respinto dalla gelida Olivia?
“Voglio servire il duca” annuncia Viola naufragata sulle sponde di Illiria: “a lui presentarmi come un eunuco.” Conosce la musica, canterà per lui. Dal canto suo, il duca si è presentatoin scena al primo atto affermando: “Se di musica si ciba amore, ancora, datemene ancora, tanta musica…” Viola non l’ha sentito, ma confida nella musica come in quell’arte che addolcisce le pene degli innamorati. Si presenta dunque al duca sotto le mentite spoglie di Cesario, e il duca rimane incantato dalla sua voce e osserva: “la tua piccola tuba” (e allude alla gola e alla voce) “è come l’organo della verginella, limpido e squillante, se fossimo a teatro faresti la parte della donna”. Èuna battuta i cui doppi sensi non sfuggono certo al pubblico elisabettiano.
La percezione dell’ambiguità sessuale era in ogni modo sottolineata dal drammaturgo, per creare i suoi doppi e tripli e quadruplici sensi. Quando Malvolio, onesto e fin troppo solerte e puritano servitore di Olivia, deve riferire alla sua padrona chi sia Viola-Cesario, così denuncia la propria confusione: “Sta in acqua stagna tra ragazzo e uomo… Si direbbe che ha ancora sulle labbra il latte materno.”
Viola-Cesario, di fronte a Olivia, non si esime dalle allusioni, anzi l’avverte: “Non sono quello che recito.” Incalzato(a) da Olivia che lo interroga ansiosa (“chi siete, che cosa volete?”), risponde: “quel che sono e quel che voglio sono segreti quanto la verginità.” E così, lazzo dopo lazzo, la commedia procede sfruttando con brio e con ironia i paradossi e le inversioni e perversioni cui il travestimento induce: Olivia si innamora di ViolaCesario, e Viola-Cesario di Orsino, il quale però lo crede un uomo…
È Viola-Cesario a riassumere la situazione più o meno così: Olivia si è innamorata di me, che sono una donna (ma intanto, chi parla e un uomo-ragazzo), io sono il suo uomo! Se fosse così – come in effetti è – sarebbe meglio per lei di innamorarsi di un sogno. “Travestimento – sei proprio un maleficio” esclama, e considera in modo obiettivo l’ambigua situazione in cui si trova: in quantouomo, non potrà sperare nell’amore del suo padrone, mentre in quanto donna Olivia sospirerà per lei invano.
È un povero mostro, un essere anfibio; sempre le creature umane si confondono in amore, l’amore e I’esperienza dell’inganno per eccellenza.
In amore c’è perdita dell’identità, l’io cede al potere dell’altro. In Come vi piace il travestitismo di Rosalinda si raddoppia in un gioco barocco di rifrangenze: Rosalinda si veste da contadino e prende il nome di Ganimede e si offre di servire Orlando, che l’ama in quanto Rosalinda. Per lui, per lenire le sue pene d’amore farà finta di essere Rosalinda; del resto, a teatro, non sono i ragazzi a recitare le parti femminili? Ganimede era Rosalinda per Orlando, che crede di averla perduta. Ma intanto, in scena vediamo un ragazzo-attore che fa la parte di una donna che finge di essere un uomo che recita la parte della donna!
Situazione iperreale, come commenta lo stesso attore nell’epilogo, quando solo in scena, nella parte di Rosalinda (quindi in panni femminili), afferma: “Se fossi una donna, bacerei tutti, tutti quelli che hanno le barbe che mi piacciono, colorito di mio gusto, e un fiato che non mi disgusti…”
Ripeto, è un ragazzo che parla. È Ganimede, è un ganimede, un vagheggino. Le allusioni omoerotiche non potrebbero essere più esplicite.
Nell’Amor nello specchio il motivo del travestitismo è evocato, ma non avviene in scena; è immaginato. Eugenio non è Lidia travestita: è Eugenio, il gemello di Lidia. Florinda, nemica agli uomini, lo lascia penetrare nella sua stanza, poichè crede che sia Lidia, con la quale intrattiene con soddisfazione di entrambe, avverse al sesso maschile, una relazione amorosa. Quando scopre che Eugenio non è Lidia, scopre anche un modo del piacere più gustoso. E sconfessa la sua ideologica avversione.Cambia alleanza.
Florinda è una bisbetica domata e il suo omoerotismo una stagione breve, una fase passeggera del piacere, che procede come sappiamo per zone (orale, anale, per poi giungere al genitale maschile come all’apice, al traguardo). Al culmine, il piacere sessualesi incarna nel fallo, quello il suo simbolo. La serva di Florinda, Bernetta, che è donna esperta e sapiente, se non altro per età e conoscenza pratica, gliel’ha sempre ripetuto senza nessuna ipocrisia, senza nessuna prevenzione: l’amore omosessuale tra donne non può dare lo stesso piacere (e parliamo inequivocabilmente di piacere sessuale), visto che non contempla un organo che nemmeno lontanamente evochi quel simbolo. Non è questione di proibire il piacere femminile; neppure il governatore si mette qui nella posizione di divieto, di censura. Èpiuttosto che quel piacere e regressivo. Ce n’èuno superiore.
Nel teatro inglese elisabettiano e giacomiano, nel teatro di Andreininon c’èaffatto paura dell’omosessualità, nè dell’omoerotismo in genere. Omosessualità, eterosessualità sono invenzioni più recenti, si confanno a una differente scienza, e coscienza sessuale. Al contrario, nelle commedie shakespeariane che ho citato prima, come in questa di Andreini, c’è un evidente gusto libertino nell’evocare la qualità metamorfica del dio Amore; Eros è un dio polimorfo e perverso che si diverte all’equivoco, alla confusione.
Concorre alla confusione e al caos una conoscenza vaga e accecata dal pregiudizio del corpo sia maschile che femminile. Credenze imprecise, ma ben calcolate per sorreggere la struttura patriarcale dominante, vagheggiano nel corpo femminile l’evidenza fisica di uno sviluppo imperfetto dell’apparato sessuale. In trattati ginecologici di grande popolarità si diffondono concezioni della differenza dei sessi che procedono per omologia; igenitali femminili sarebbero uguali a quelli maschili, ma invertiti, cioè rivolti all’interno. Potrebbero peròad un certo punto scoppiare all’esterno. E successo (cosi raccontaMontaigne) a una pastora: un giorno mentre seguiva it suo gregge le sono venuti fuori i genitali. Prima era una donna, e diventata un uomo. Prima si chiamava Marie, ora Germain. Rarissimi sono i casi che documentino il contrario. L’uomo, almeno a quei tempi, non voleva diventare donna, anche se poteva magari volersi travestire da donna. In fondo, sempre a quei tempi, fino agli otto, nove anni i bambini erano tutti vestiti con le gonne, erano tutti bambine, e forse un po’ di nostalgia per quel mondo regressivo poteva riemergere, come una specie di ritorno dell’amore materno perduto. Ma per lo più l’uomo voleva restare uomo e amare le donne e i giovinetti, perchè no? Mentre la donna, la donna-donna, Florinda è un esempio, magari si illudeva di poter rifiutarsi al potere del maschio amante, ma come rinunciare al piacere superiore che lui le promette?
Si è molto discettato sulle ragioni della rimozione femminile dal palcoscenico inglese. Perchè le donne non possono fare le attrici? L’equazione attrice-puttana non giustifica e non spiega, perchè la medesima equazione valeva nel continente europeo, ma non bastava in Italia, in Spagna, in Francia a proibire alle donne la professione.
Si è detto: a Londra la classe media era per lo più di fede protestante, o addirittura puritana, e nei paesi riformati – anche nei Paesi Bassi, anche in Germania – il pregiudizio contro il teatro era radicale. I Puritani accusavano con violenza inaudita il gioco del travestitismo. Chi si traveste non è più nè donna nèuomo, ma mezzo donna mezzo uomo, un mostro, tuonavano i predicatori appellandosi alla Bibbia, citando il Deuteronomio.
Chi si mette addosso panni non suoi, usurpa il proprio stato. In più il teatro eccita le passioni, a teatro prorompe la libidine, trionfa una promiscuità oscena tra i sessi. Il sesso debole in particolare va difeso; in fondo, le donne dovranno essere madri, e la madre non può non essere pura, se non altro per garantire una buona razza. Rimane il fatto che, malgrado i Puritani, a Londra, più che nell’Italia cattolica le donne erano libere: tutti i viaggiatori che da vari paesi giungevano a Londra rimanevano colpiti dalla libertà femminile e dal fatto che i teatri erano pieni di donne tra il pubblico. Eppure, erano gli uomini a fare la parte delle donne. Per costume, per abitudine, per convenzione, erano i fanciulli impuberi a recitare con le gonne.
La proibizione, va detto, valeva per il teatro pubblico. Nelle sale private, nelle rappresentazioni a corte, nei masques, e prima ancora nei grandi cicli medievali le donne recitavano. Nel ciclo di Chester, l’Assunzione della Vergine era affidata alle allegre comari di Chester. Negli archivi del comune di Londra si registrano pagamenti a parecchie donne che presero parte a delle rappresentazioni organizzate dal Sindaco tra il 1523 e il 1534; erano professioniste, che apparivano soltanto in certe occasioni. C’erano poi le attrici straniere; una tale madameConiack, francese, è molto famosa e recita il ruolo di Circe in un masque dal titolo TempeRestored. E quando le si presenta di fronte Pallade Atena, recitata da un attore maschio, non si lascia sfuggire la battuta “man-maid, begone!”
Se se la permette, svelando il segreto travestitismo del teatro inglese, è perchè quell’intera cultura del travestitismo sta per finire. Quando, dopo la peste e la rivoluzione, nel 1660 riapriranno i teatri, le donne calcheranno la scena, senza nessuna obiezione, nessuno scandalo.
Finchè la proibizione resiste, è evidente che sulla scena inglese il travestitismo, benchè abbia alla base un impulso repressivo, in verità scatena fantasie le più perverse, le più libertine. E svela, o rivela, una componente fortemente pederasta della fantasia sessuale di parte maschile. In fondo, anche desiderando la donna, in realtà si desidera ilfanciullo che la impersona. Mentre per il pubblico femminile, si conferma che il corpo del desiderio è sempre femminile; non c’è altro oggetto del desiderio se non un corpo femminilizzato, effeminato.