2012 / Laboratorio agosto-settembre
Dal 21 agosto al 16 settembre si è svolto un laboratorio articolato in quattro settimane che ha visto coinvolti due giovani registi, Luca Bargagna e Giorgio Sangati, e quattordici attori, di diverse provenienze, formazioni ed età: Ivan Alovisio, Fausto Cabra, Clio Cipolletta, Loris Fabiani, Gabriele Falsetta, Lucrezia Guidone, Lucia Marinsalta, Francesco Petruzzelli, Sara Putignano, Francesco Sferrazza Papa, giovani provenienti dalle migliori scuole di teatro italiane, hanno lavorato a stretto contatto con Sandro Lombardi, Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti e Giovanni Crippa, professionisti di lunga carriera.
Costituito da quattro diverse sezioni, il laboratorio è focalizzato su altrettanti testi che attraversano la drammaturgia novecentesca e contemporanea: l’indagine critica su Luigi Pirandello, autore affrontato negli ultimi tre anni di laboratori a Santacristina, prosegue con uno studio sulla commedia L’innesto, con la regia di Luca Bargagna.
L’atto unico L’inappetenza del drammaturgo argentino Rafael Spregelburd è invece affidato a Giorgio Sangati.
Sempre sotto la supervisione di Ronconi, i due giovani registi hanno condiviso anche la messa in scena del testo ancora inedito di Giuliano Scabia, Commedia di matti assassini, una riflessione sul concetto di normalità, con cinque inquietanti personaggi dalla molteplice identità e alle prese con la vita e con la morte.
Nel corso del laboratorio, Luca Ronconi ha curato uno studio su Pornografia di Witold Gombrowicz.
Commedia di matti assassini
di Giuliano Scabia
A cura di Luca Bargagna – Giorgio Sangati
Scene:
Prologo
Attesa del Re di Svezia
Sul sentiero delle renne
Sul mare di ghiaccio
Maria F./ Contessa di Casti Piani Clio Cipolletta
Giuseppe T./ Principe di Castrignanò Gabriele Falsetta
Giovanni R./ Marchese di Rosa Spina Francesco Sferrazza Papa
Francesco L./ Cavalier de Cinzio Fausto Cabra
Giorgio A./ Re di Svezia Francesco Petruzzelli
L’inappetenza
di Rafael Spregelburd
A cura di Giorgio Sangati
Atto unico
Signora Perrotta Francesca Ciocchetti
Marito Giovanni Crippa
Leila Clio Cipolletta
Uno zingaro Ivan Alovisio/Loris Fabiani
Magalì Lucrezia Guidone
Romita Sara Putignano
Un impiegato Fausto Cabra
Sara Francesco Sferrazza Papa
Virgilio Francesco Petruzzelli
L’innesto
di Luigi Pirandello
A cura di Luca Bargagna
Atto I – scena VI, scena VIII, scena IX;
Atto II – scena III, scena V, scena VII, scena VIII;
Atto III – scena I, scena II, scena IV
Laura Banti Lucrezia Guidone
Giorgio Banti Gabriele Falsetta
Signora Francesca Betti Clio Cipolletta
La Zena, contadina Sara Putignano
Il dottor Romeri Giovanni Crippa
La Signora Nelli Sara Putignano
Avv. Arturo Nelli Fausto Cabra
Delegato, inserviente Francesco Sferrazza Papa
Recensione Gramsci Giovanni Crippa
Partecipare al cantiere teatrale di Santacristina – fondato nel 2002 da Luca Ronconi e Roberta Carlotto – è un privilegio e una fortuna, anche se da “osservatore” e per soli quattro giorni. In primo luogo perché (va da sé, ed è perfino banale dirlo) si ha la possibilità concreta di vedere il Maestro in azione in un clima di assoluta libertà, e di scoprire tutto quello che per forza di cose è impossibile conoscere da semplice spettatore, cioè l’elaborazione intellettuale, il fermento creativo, il rigore filologico che precede una, magari eventuale, messinscena futura. Ma, al di là di questo, è proprio Santacristina – una sorta di grandissimo, confortevole eremo ubicato nel cuore dell’Umbria più impervia e boschiva – a suscitare un fascino speciale. Durante le concentratissime sessioni di lavoro, ma anche nei momenti di pausa, come i pranzi e le cene, si percepisce materialmente la comunione dinamica ed empatica di questa comunità laica formata da attori di più generazioni, affermati ed emergenti, oltre che, ovviamente, dai carismatici padroni di casa. Soltanto attraverso l’esperienza diretta si chiarificano i contorni e gli obiettivi perseguiti dal regista con inesausta tenacia, ci si rende cioè conto che, più che un qualificato iter formativo (la parola “formazione” negli ultimi tempi si è connotata di significati molto confusi e talvolta fuorvianti) a coloro che vengono selezionati il Centro offre un’occasione di crescita artistica e personale fuori dai vincolanti meccanismi produttivi del teatro nazionale. Un’occasione grazie alla quale verificare e mettere in discussione i propri punti fermi e le proprie certezze, in un percorso a direzione non univoca, in cui la condivisione prevale sulla trasmissione verticale delle conoscenze.
L’edizione del decennale si diversifica abbastanza dalle ultime, e segna un sostanziale ritorno alle origini, incentrata com’è su quattro differenti testi, L’inappetenza di Rafael Spregelburd, L’innesto di Luigi Pirandello, Commedia di matti assassini di Giuliano Scabia e Pornografia di Witold Gombrowicz. I dieci giovani attori – Ivan Alovisio, Fausto Cabra, Clio Cipolletta, Loris Fabiani, Gabriele Falsetta, Lucrezia Guidone, Lucia Marinsalta, Francesco Petruzzelli, Sara Putignano, Francesco Sferrazza Papa, affiancati da colleghi di maggiore esperienza come Riccardo Bini, Francesca Ciocchetti, Giovanni Crippa e Sandro Lombardi – si dividono dunque tra quattro approcci alla scrittura teatrale assai diversi tra loro per stile e contesto. Le quattro tessere di questo mosaico non sono state scelte da Ronconi per stabilire dei legami concettuali. Ciascuna anzi va per suo conto, apre universi e dimensioni relazionali differenti, anche se – a posteriori – è possibile ipotizzare connessioni intertestuali, un’insistenza su alcuni snodi tematici comuni: la sfera del crimine e dell’erotismo – intrecciati tra loro –, un punto di vista “eccentrico” e periferico sul concetto di scandalo, una sessualità deprivata del vitalismo cui normalmente si accompagna, la dimensione contraddittoria e magmatica della maternità. Tutto questo però – sottolinea il Maestro – nasce dopo e non prima, è quindi una conseguenza quasi casuale (ma allo stesso tempo emblematica) delle suggestioni che stanno all’origine delle scelte compiute.
Nel seguito di questi appunti cercherò di descrivere, per quello che ho potuto assaporare in prima persona, ciascuna di queste tappe sperimentali.
L’inappetenza – secondo Spregelburd declinazione contemporanea dell’antica lussuria – è un testo estremamente sintetico, undici pagine in tutto, nel quale l’autore catapulta lo spettatore, a bruciapelo, nelle dinamiche relazionali, astruse e stranianti, di una famiglia della Buenos Aires di oggi. In questo spazio ristretto vengono introdotte senza preavviso tematiche scottanti – dai club esclusivi dove si consuma un sesso estremo quanto misterioso all’abbandono svogliato e indifferente di bambini agli angoli delle strade, dalle guerre “buone” portate avanti dai Paesi occidentali all’incomunicabilità totale come cifra specifica del mondo contemporaneo. Le scene si alternano senza nessi logici apparenti, collegate tra loro dal leitmotiv del cibo, continuamente evocato ma mai consumato (per inappetenza, appunto). L’aspetto semantico dunque non è affatto secondario, nella costruzione “frattale” della pièce, che vede protagonista una vogliosa e allo stesso tempo apatica signora Perrotta, moglie nevrotica e madre fallita. Ma – come spesso nella drammaturgia dello scrittore argentino, ormai diventato molto più di una moda passeggera del teatro europeo – i contenuti assumono la loro effettiva pregnanza soltanto a partire dalla particolare visuale di chi li ha scritti per la scena (e quindi per il proprio pubblico). Ed è qui che si gioca il lavoro del gruppo, guidato alla scoperta del testo da Giorgio Sangati (già esperto di questioni spregelburdiane essendo stato assistente regista nella superba Modestia allestita da Luca Ronconi nel 2011). Scoperta che si rivela impervia soprattutto nella restituzione – pur se in ambito laboratoriale – di questo materiale fluido e all’apparenza incoerente. Durante le sessioni di analisi emerge, sulla scorta dei consigli del Maestro, una prima direzione di marcia: considerare cioè L’inappetenza come una gigantesca messa alla prova dello spettatore, un continuo stuzzicarlo e richiamarne l’attenzione attraverso passaggi oscuri, omissioni e anticipazioni immotivate, ma anche e soprattutto fornendogli esche cui possa abboccare per mettere progressivamente insieme gli intricati incastri del puzzle. Ecco dunque che gli sforzi si concentrano sul “dire” la scena, la battuta, la frase, il sintagma. Ed è qui che – memore del suo passato d’attore – interviene con vigore Sangati nel passare a setaccio ogni inflessione, ogni pausa, ogni singolo movimento. Illuminante, a questo riguardo, l’esercitazione sulla scena 2, cui ho assistito, dove la signora Perrotta, morsa da curiosità più che da reale libido, cerca di entrare nel segreto, scandaloso mondo del marito, recandosi in un non meglio precisato “ ufficio” a parlare con un altrettanto poco connotato “impiegato”:
signora perrotta […] Non importa il mio nome. Preferisco l’anonimato, in questi casi.
un impiegato In quali casi?
signora perrotta Non lo renda più difficile. Io so già chi siete voi, e quindi lei dovrebbe sapere cosa voglio.
un impiegato Noi?
signora perrotta Non parlerò più. Se mi fossi sbagliata, mi avrebbe già potuta far sbattere in strada. Voglio sperimentare. So che accettate nuovi membri.
un impiegato Perché non dice cosa vuole?
signora perrotta No, non parlerò più. Per pudore. Aspetto che mi dica cosa devo fare. Immagino che il posto non sarà qui, nell’ufficio.
un impiegato Vuole un caffè?
signora perrotta Sì.
Francesca Ciocchetti, già bravissima Anja Terezovna/Ángeles nella Modestia, incalzata dal giovane regista, dosa le intonazioni della voce, asseconda le reticenze, evidenzia le ambiguità, in un continuo saliscendi vocale e gestuale che rende perfettamente l’atmosfera evocata dall’autore, senza che chi guarda comprenda davvero quale sia l’oggetto occulto del dialogo. Il tutto dunque acquista un surplus di anomala pruriginosità, aprendo insinuanti varchi verso quello che verrà successivamente. Quest’attenzione certosina al lavoro d’attore, rivolta ad accalappiare subdolamente l’appetito e la concentrazione dello spettatore, è dettato anche – afferma lo stesso Sangati – dalla volontà di andare oltre un certo “spregelburdismo” che ha attecchito da qualche anno in Italia e che rischia di mettere tra parentesi gli obiettivi scanzonati e serissimi di questa drammaturgia, fondata sempre sul coinvolgimento (ostile o complice) del pubblico per cui è stata concepita.
Su tutt’altro versante si pone L’innesto di Pirandello, commedia poco nota in cui è narrato lo stupro di una donna sposata, Laura, e la sua conseguente gravidanza, con tutte le implicazioni che entrambi gli eventi provocano sul normale menage di una famiglia borghese, e in particolare sul marito Giorgio, sconvolto dall’atto violento-generativo cui si aggiunge la consapevolezza della propria sterilità. La lettura che ne fa Luca Bargagna, cui è affidato il compito di guidare il percorso, parte da un accurato smontaggio del testo originale, del quale viene preservato soltanto il nucleo “scandaloso” e problematico, eliminando in primo luogo la classica ambientazione pirandelliana (“Salotto elegantemente mobiliato in casa Banti”, recita la didascalia). Il “rimpasto” prevede alcuni scarti rispetto all’originale, a cominciare dal fatto, drammaturgicamente rilevante, che sin dall’inizio tutti sappiano già quanto è accaduto a Laura: quest’inedita prospettiva mette in una luce molto più sinistra le battute con le quali prende avvio la commedia, facendo risaltare impietosamente l’ipocrisia della Madre e delle altre donne che ruotano attorno alla casa. Tale slittamento semantico si traduce in un decadimento dei dialoghi ad allusivo chiacchiericcio, stigmatizzato dalla recitazione caricaturale delle attrici, che elimina ogni impronta naturalistica e rende immediatamente percepibili le intenzioni e le motivazioni dei personaggi – divisi tra malizioso pettegolezzo e desiderio di occultare la realtà – accrescendone i chiaroscuri e le zone d’ombra.
Del resto il punto di partenza, suggerito da Ronconi, risiede in un articolo, per nulla tenero, firmato da Antonio Gramsci nel marzo del 1919, che prende in esame L’innesto e svela elementi chiave taciuti dall’autore, contestandone implicitamente lo stesso titolo:
Le osservazioni del grande intellettuale sardo divengono un po’ la chiave di tutto il lavoro di analisi, tendente appunto a far emergere la sostanza scabrosa e angosciante che regge i fili del testo, cercando, attraverso un procedimento a frammenti che prescinde dagli atti e dalle scene, di far affiorare le stridenti contraddizioni poste dal tema affrontato. Questo tipo di operazione – assecondata e favorita dal lavoro interpretativo di giovani attrici come Clio Cipolletta (la Madre) e Lucrezia Guidone (che con Pirandello si era già provata nella splendida caratterizzazione della Figliastra di In cerca d’autore, e ora veste i panni di Laura) – rende il tracciato verbale estremamente attuale, ne amplifica la valenza contemporanea scrostandolo delle reticenze (coscienti o meno) del suo autore. L’importanza dello scritto gramsciano viene ribadita “innestandone” una parte all’interno di una battuta del dottor Romeri, figura alla quale lo scrittore girgentino attribuisce una sorta di “oggettività” eretica rispetto alla parzialità emotiva di tutti gli altri personaggi. E Giovanni Crippa, che ne assume il ruolo, enfatizza questo aspetto super partes attraverso una declamazione quasi impersonale nella quale – rompendo l’inganno scenico – si rivolge direttamente agli spettatori. Pur non intervenendo in alcun modo sulla lingua, che resta quella pirandelliana, almeno nelle fasi di elaborazione di cui sono stato testimone Bargagna (già assistente regista nel citato In cerca d’autore) sembra impegnato, insieme ai suoi attori, in un processo di scarnificazione della pièce che, isolando singole porzioni significative, presenta qualche ascendenza mülleriana nell’incidere spietatamente le ferite dove sono più purulente e sanguinanti.
Ancora diverso l’approccio alla Commedia di matti assassini di Giuliano Scabia, condotto “a quattro mani” da Giorgio Sangati e Luca Bargagna, che hanno prima di tutto cercato e trovato un punto d’incontro tra le loro differenti metodologie registiche. Il testo, dedicato dal poeta padovano a Franco Quadri, complica ulteriormente l’eterna dialettica attore/personaggio: in scena stanno cinque figure, i matti assassini, appunto, condannati per delitti feroci nei confronti di propri stessi congiunti (l’amante, la madre, la figlia). Costoro, in uscita premio dal loro istituto giudiziario-psichiatrico, sono i protagonisti di una rappresentazione teatrale in cui assumono ciascuno più ruoli, in quella che è – in estrema sintesi – una lunga ed epica battaglia contro la morte. Dunque, nell’impasto lirico tipico di Scabia – “un cherubino che riesce a dire con grande grazia cose terribili”, dice Ronconi – si ha una moltiplicazione dei piani interpretativi: ogni attore è matto/assassino ma anche re di Svezia, principe di Castrignanò, cavalier de Cinzio ecc. ecc., in un continuo rimescolamento delle parti. L’autore, presente a Santacristina, stimola i giovani attori in una gioiosa lettura senza paracadute, in cui tutti mettono alla prova le proprie capacità di improvvisare, sotto lo sguardo vigile (e silenzioso) di Luca Ronconi. Il giorno seguente, è lo stesso Maestro a riprendere i fili del discorso suggerendo una chiave di lettura inedita, destinata a stravolgere e indirizzare quei primi passi di avvicinamento al testo. Il consiglio che rivolge è infatti quello di “privare completamente ogni battuta del suo significato”, partendo dal silenzio per poi romperlo attraverso l’introduzione di singole parole. In quella che presto si trasforma in una lezione sulla recitazione, il regista, leggendo lui stesso una lunga porzione di testo, sprona gli attori a divenire degli “amanuensi” che ricopiano frasi di cui ignorano il senso, alla maniera degli interpreti dell’antica Orestea. Questo procedimento permette di giungere a una sorta di automatismo su cui, in seguito, montare le battute. Trovata la chiave testuale – continua a spiegare Ronconi – sarà più facile accedere al significato e considerare in modo meno stereotipato ciascun personaggio, che rappresenta non più il punto di partenza ma quello di arrivo. Quest’impostazione fa anche tabula rasa delle convenzioni legate allo sdrucciolevole concetto di improvvisazione, nel quale l’attore si sente legittimato a proporre, senza argini, elementi del proprio sé, che spesso si rivelano fallaci. Nelle fasi successive questi spunti per un approccio iniziale vengono sedimentati e rielaborati dal gruppo, che si concentra sulla partitura verbale della pièce, mantenendosi prudentemente a distanza da letture convenzionali e “interpretative” e ponendosi come obiettivo una neutralità dell’eloquio, favorita dalla struttura paratattica e anaforico-allitterante dell’opera (particolarmente emozionante, all’ascolto, l’alternanza vocalica Myrta/morte). Presa questa direzione – ed eliminati i triti cliché che accompagnano il più delle volte il mondo della pazzia a teatro – la sperimentazione sul testo scabiano si rivela fruttuosa e convincente, pur nella dichiarata incompletezza dell’analisi, incentrata su quattro singole scene.
Se nei precedenti percorsi Luca Ronconi si è ritagliato un ruolo di osservatore/suggeritore, ha invece affrontato in prima persona Pornografia.
La vicenda narrata è riassumibile in poche righe, rubando le parole allo stesso Gombrowicz:
[…] Due signori di una certa età incontrano una coppia di adolescenti che sembrano violentemente attratti da un sex appeal reciproco. I giovani però non hanno l’aria di accorgersene, il che esaspera i due signori, che vorrebbero veder realizzata tutta quella bellezza, veder esplodere quella giovane poesia. Essi cercano quindi di svegliare il ragazzo e la ragazza, di indurli ad amarsi, di buttarli l’una nelle braccia dell’altro. A poco a poco i due signori, affascinati dalla bellezza giovane, si innamorano della coppia. Vogliono a tutti i costi penetrare dentro quel fascino, legarsi ai giovani… e scoprono che un delitto, un peccato commesso insieme a loro, può farli intrufolare in quella intimità altrimenti impenetrabile. […]Una trama così ridotta all’osso non dà conto dell’ambientazione in cui il romanzo viene inserito, vale a dire una Polonia nel pieno della (subìta) seconda guerra mondiale, in cui confluiscono le angosce della violenza nazista e le istanze patriottico/rivoluzionarie dei partigiani autoctoni, tutte argomentazioni rintracciabili nel libro di Gombrowicz (in quell’epoca riparato in Argentina).
Il Maestro, uso alla translitterazione scenica di testi non teatrali – basti pensare al Pasticciaccio gaddiano o ai Demoni dostoevskiani, per ricordare solo due esperimenti riusciti – mette a disposizione dei partecipanti al laboratorio la sua entomologica analisi del romanzo. La drammaturgia che ricava è allo stesso tempo rispettosissima del testo (sul quale sono operati alcuni tagli senza toccarne in nessun caso l’integrità) e squisitamente teatrale, come è chiaro sin dai primi minuti di lettura a tavolino della scena iniziale. Se Gombrowicz inizia in modo ellittico:
E ora voglio raccontarvi un’altra mia avventura, temo una delle peggiori. A quel tempo, eravamo nel 1943, mi trovavo nella fu Polonia e nella fu Varsavia, sul fondo più fondo del fatto compiuto. Silenzio.
il regista asciuga ancora:
1943. Polonia. Varsavia. Silenzio.
Questo incipit dà subito luogo alla prima distinzione rispetto all’opera letteraria: la narrazione in prima persona che vede protagonista Witold (un’esplicita dichiarazione di autobiografia, cui Gombrowicz aggiungerà in seguito numerose tracce altrettanto inequivocabilmente autobiografiche) si divide subito in due diverse voci (quella appunto di Witold, cui dà vita Riccardo Bini, e quella di Federico, impersonato invece da Sandro Lombardi). Questi due personaggi – i “due signori” descritti da Gombrowicz –, nell’alternarsi delle loro battute, danno immediatamente la percezione dello sdoppiamento ancora una volta autobiografico di chi li ha creati (Federico come “parte nera” di Witold), e di cui il lettore si rende conto, forse, soltanto più tardi:
witold Con il diradato gruppetto di colleghi e amici del fu caffè Zodiak, ci riunivamo ogni martedì in un appartamento dove, sbevazzando, tentavamo di continuare a fare gli artisti, gli scrittori, i pensatori… riprendendo le nostre vecchie fu chiacchiere e fu discussioni sull’arte… seduti o semisdraiati in una nube di fumo, tutti urlanti e sbraitanti a più non posso. Uno che grida: “Dio!”, l’altro: “Arte”, il terzo: “Nazione”, un quarto: “Proletariato!” e giù a discutere come pazzi, sempre la stessa solfa: Dio, l’arte, la nazione, il proletariato.
federico Finché un bel giorno ecco arrivare un tipo di mezz’età. Si presentò a tutti uno per uno, rispettando a puntino le formalità del caso, dopodiché non disse più nulla o quasi. Ringraziò assai compitamente per il bicchierino di vodka offertogli e con non minor compitezza chiese: “Potrei avere anche un fiammifero?”, indi prese ad attendere il fiammifero…
witold Intanto la discussione ferveva: Dio, Proletariato, Nazione, Arte; e intanto l’aria sapeva di chiuso.
federico E quando infine l’ottenne, procedette ad accendersi una sigaretta.
Ma chi sono questi due individui (o meglio quest’unità scissa in due differenti e complementari zone psichiche), che giungono a prospettare e realizzare un plurimo omicidio per soddisfare la propria (immatura) volontà erotica? Ronconi, in una tesa sessione di lavoro, lo chiarifica rispondendo a una domanda di Riccardo Bini rispetto a una battuta in cui W. narra l’incontro con F.:
witold Questo strano comportamento [di Federico] (poiché in verità egli non faceva altro che “comportarsi”, senza tregua “si comportava) suscitò subito la mia curiosità e fece sì che nei mesi seguenti prendessi a frequentare quell’uomo che doveva rivelarsi non privo di savoir faire nonchédi una certa esperienza in campo artistico (un tempo si era occupato di teatro). Come spiegare… come spiegare…? Basti dire che mettemmo su insieme una piccola impresa commerciale che ci dava da vivere. Comunque non durò a lungo: un bel giorno ricevetti la lettera di un certo Ippolito.
Nel recitarla, Bini trova ridondante l’ultima parte: “Comunque non durò a lungo…”, e chiede di poterla tagliare. In quell’occasione il Maestro si impunta: “Se si tolgono quelle parole risulterà che si tratta di due piccoli imprenditori in cerca di affari: invece sono due intellettuali, due figure letterarie che iniziano in quel momento preciso, dopo il fallimento della ‘piccola impresa commerciale’, un nuovo viaggio nel loro vuoto esistenziale”.
A caratterizzare ancora maggiormente l’humus di queste due maschere archetipiche, immerse nell’universo desolato della spietata parodia gombrowicziana, Ronconi interviene anche in seguito, dopo l’introduzione di Francesco M. Cataluccio, che mette in risalto l’apparente contrasto tra i mondi non comunicanti della maturità (=consapevolezza) e dell’adolescenza (=natura). Sandro Lombardi domanda quanto il rimpianto della giovinezza perduta spinga W. e F. a ricercarla, indebitamente, nei corpi e nei fiati dei due giovani e inconsapevoli adolescenti. L’interrogativo di Sandro mi è molto familiare: nel leggere Pornografia avevo infatti riversato nella doppia individualità W./F. un afflato leopardiano/proustiano, la ferita lancinante e inesorabile del tempus fugit quasi a giustificazione degli orribili passaggi compiuti dai protagonisti. Ebbene, ancora una volta il Maestro non lascia spazio a dubbi di sorta: nessun rimpianto, nessuna nostalgia in due creature letterarie nate vecchie, che non conoscono giovinezza e passato, e che sono piuttosto spinte da una precisa volontà di trasformare l’adolescenza altrui in qualcos’altro, di assecondarne e agevolarne, per mera voluttà, la corruzione. E a una rilettura meno emotiva, pur con un certo dispiacere narcisistico, ci si rende conto dell’assoluta correttezza di questa lettura.
Il lavoro di escavo procede inesorabile e senza soste durante le sessioni pomeridiane, nelle quali il testo dell’autore polacco viene vivisezionato con scrupolo quasi parola per parola, mentre il regista ricerca la giusta intonazione, il corretto utilizzo della parola in funzione antidescrittiva: sin dall’inizio infatti insiste sulla necessità di evitare il racconto per procedere invece attraverso immagini, invitando lo spettatore a “vedere” invece che ascoltare. E in questa direzione si apre un mondo di implicazioni parodiche, un sarcasmo bruciante verso tutto ciò che chiama in causa l’ideologia (ancora una volta “Dio”, “arte”, “nazione”, “proletariato”, ridotti al rango di “fu chiacchiere”), una cornice straniante e assolutamente non realistica in cui sono iscritte le relazioni tra i personaggi. Emerge con evidenza la truffa compiuta da Gombrowicz nei confronti del suo lettore, cui spaccia per reale e vissuta un’esperienza invece palesemente inventata. Tutto questo sgorga con coerenza stilistica assoluta e altrettanta profondità analitica, che mette a nudo l’universo poetico gombrowicziano.
Si potrebbe proseguire con molti altri esempi tratti da quelle intense giornate agostane, dove il Maestro metteva a punto, attraverso le voci e i corpi dei suoi attori, le ultime fasi del suo impianto drammaturgico, già peraltro raffinato in solitudine. Ma oltre ad assistere alla trasformazione di un’opera letteraria in allestimento scenico, che è di per sé un’operazione affascinante e allo stesso tempo assai rischiosa, l’impressione che si ha dopo quelle ore condivise con gli artisti è quella di aver capito e scoperto soltanto in quel momento, grazie al teatro, un romanzo complesso e sfuggente come Pornografia. E viene spontaneo pensare, giungendo al paradosso, che tutti i lettori, per comprendere Gombrowicz (così come Dostoevskij, Gadda, James, Nabokov e via dicendo) dovrebbero assistere all’analisi drammaturgica e teatrale che ne fa Ronconi. Quest’ultima rappresenta infatti il più efficace saggio critico non tanto e non solo sulla messinscena a venire ma sulla stessa letteratura di partenza, intesa come materia per indagare “politicamente” – nel senso più esteso possibile – l’uomo contemporaneo e le sue infinite, irrisolte contraddizioni e fragilità.
La cosa che fece scandalo in Polonia non fu la trama, che allude nemmeno tanto larvatamente a una relazione omosessuale, ma proprio questo parlare della guerra “da lontano”; l’aver collocato un evento così drammatico sullo sfondo e, per di più, aver mostrato i partigiani nei loro aspetti meno eroici. Eppure, quel “parlar d’altro” rende la guerra ancora più terribile mostrando delle verità più profonde di qualsiasi racconto-reportage. Aveva ragione il poeta-premio Nobel, Czesław Miłosz, quando scrisse: “Considero Pornografia tra l’altro il più fedele e realistico, perchè metaforico, quadro del movimento partigiano in Polonia negli anni 1939-1945”.
La vicenda degli attempati Federico e Witold che, in una placida campagna polacca appena disturbata dalla guerra, spingono i giovani “indifferenti” Enrichetta e Carlo l’una verso l’altro con una serie sadica di macchinazioni pseudoerotiche che li uniranno alla fine in sanguinosi delitti, si presta a molte chiavi di lettura. Pornografia, che doveva inizialmente intitolarsi Atteone (come il personaggio della mitologia che, per aver guardato Diana nuda, fu trasformato in un cervo), è un romanzo sull’ossessione e la tragedia del guardare che, per Gombrowicz, era, allo stesso tempo, un piacere e anche il motore della sua attività artistica e filosofica. Egli inoltre, come giustamente ha sottolineato Ronconi, considerava il Dolore il fatto più importante e decisivo, fondamento di ogni realtà. La letteratura, secondo Gombrowicz, non era la scoperta di Dio, ma del Male.
Anche se Gombrowicz si è cimentato alcune volte nella scrittura di testi teatrali – con Iwona principessa di Borgogna (1938); Matrimonio (1953); Operetta (1967) e il frammento incompiuto Historia (1962) – sembra trovare proprio nei suoi ultimi romanzi, Pornografia (1960) e Cosmo (1965), una “chiave teatrale” molto particolare. I suoi protagonisti, soprattutto Federico, sono infatti dei “registi” che mettono in scena la realtà come la vorrebbero, “forzando” gli altri a concorrere alla buona riuscita delle loro macchinazioni.
Nel Testamento (1969), Gombrowicz afferma che Federico è una sorta di Cristoforo Colombo che si butta a capofitto a scoprire luoghi sconosciuti: la nuova Bellezza e la nuova Poesia nascoste tra l’adulto e il ragazzo: “Federico non è né un Satana né un voyeur, ma ha qualcosa del regista, o addirittura del chimico, che combina le persone tra loro”.
Enzo Siciliano, a proposito della nuova edizione feltrinelliana di Pornografia (la prima, del 1962, edita da Bompiani, si intitolava pudicamente, con l’assenso comprensivo dell’Autore, La seduzione) scrisse che quella vicenda, narrata magistralmente da Gombrowicz, gli ricordava l’Aminta di Torquato Tasso (opera, tra l’altro, messa in scena da Luca Ronconi nel 1994), “dove una coppia adulta spinge all’amore una coppia di giovani, e c’è un dialogo tra Tirsi e Dafne, appunto i due adulti, in cui è chiaro che ai loro occhi la passione indotta nei due ragazzi, Aminta e Silvia, altro non è che il trasferimento sulla giovinezza di quanto l’età matura vive come riflesso o invidia, come insinuazione viziosa, deviata. (…) In questa vicenda, che voleva essere, nelle parole dello scrittore polacco, romanzo della ‘giovinezza’ e perciò dell’ ‘attrattiva’, c’è una strana dolcezza tachicardiaca, e il sentimento palpitante di una sciagura. L’eros ci attira a sé: avvertiamo che stiamo subendo una seduzione di morte, e inesplicabilmente non riusciamo a sottrarci”.
Come rendere tutto questo sottile intrigo a teatro? Tutto si gioca sul “tono”, sull’attenzione spasmodica alle sfumature che fanno precipitare il gioco di due signori annoiati verso il dramma. La forza di Pornografia sta proprio nel testo, nelle parole che danno il tono dei vari personaggi, che, quasi malgrado se stessi (perché c’è un momento in cui tutto sembra sfuggire di mano a ciascuno), concorrono a “mettere in scena” il tragicomico dramma.
Witold Gombrowicz, che si autodefiniva, un “immaturo innamorato della propria immaturità”, con il romanzo Ferdydurke (1937), fu il primo in Europa a segnalare che il segno distintivo della Modernità non era la crescita o il progresso umano, ma, al contrario, il rifiuto di crescere e che da ciò sarebbero derivati, come puntualmente avvenne pochi anni dopo, con la Seconda guerra mondiale, soltanto lutti e dolori. Come sosterrà più recentemente Milan Kundera, grande ammiratore di Gombrowicz: “I bambini non sono l’avvenire perché un giorno saranno adulti, ma perché l’umanità si avvicina sempre di più a loro, perché l’infanzia è l’immagine dell’avvenire”.
Il tema del conflitto tra Maturità e Immaturità, incarnato nella dialettica tra Adulti e Giovani, che trova la sua più compiuta espressione proprio in Pornografia, non potrebbe esser stato meglio elaborato e preparato teatralmente che in un Laboratorio come quello del Centro Teatrale Santacristina.
Nonostante che studi Gombrowicz da una trentina d’anni, devo confessare che ho capito molte più cose del suo “tono” trascorrendo tre giorni con Luca Ronconi, i suoi attori e i suoi studenti. Sono rimasto assai colpito dal modo in cui, durante le prove per uno spettacolo da trarre da Pornografia, Ronconi suggeriva l’atteggiamento dei personaggi (“Si afflosciano come palloncini gonfiati lasciati improvvisamente andare…”), indicava il senso del testo (“Il dolore è la terza dimensione: spazio, tempo e dolore. Non due dimensioni e un sentimento”) e come, assieme agli attori, recitavano ripetutamente, cambiando intonazione fino alla forma più soddisfacente, le battute del testo (“Uso solo le parole di Gombrowicz, non ne cambio nemmeno una. Accorcio e sciolgo le descrizioni in dialoghi. Tengo tutto al presente, lasciando talvolta un imperfetto, che crea un senso di spaesamento”).
In laboratorio si è ricreata la stessa atmosfera di Pornografia: un regista di grande esperienza e sensibilità, due attori affermati e problematicamente maturi, hanno lavorato a stretto contatto con un gruppo selezionato di giovani “immaturi” e appassionati, allegramente spensierati, che appena terminavano le prove correvano a giocare a Squash, mentre attorno, tra i boschi, i cacciatori sparavano all’impazzata.
W. Gombrowicz, Pornografia, Instytut Literacki, Paris 1960; trad. it. Pornografia, Feltrinelli, Milano 1994.
P. Sanavio, Gombrowicz: la forma e il rito, Marsilio, Padova 1974, pp. 36 e 55.
Cz. Miłosz, List do Gombrowicza (Lettera a Gombrowicz, 25 novembre 1961), in “Teksty Drugie”, n.1/2. 1992, p. 208.
E. Siciliano, Metti il mito tra eros e riso, in “L’Espresso”, 24/VI/1994.
Witold Gombrowicz, Ferdydurke (1937); trad. it. di Vera Verdiani, Feltrinelli, Milano 1991.
Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio (1978), trad. it. di Serena Vitale, Bompiani, Milano 1980, p. 199.
La motivazione è semplice: diversamente da quello che abbiamo fatto negli ultimi anni, questa volta, come nelle prime edizioni, abbiamo coinvolto altri due registi, e di conseguenza il lavoro si è moltiplicato. Entrambi hanno già lavorato con me: Luca Bargagna, che ha studiato regia all’Accademia d’arte drammatica “Silvio d’Amico”, è stato mio assistente nel pirandelliano In cerca d’autore, mentre Giorgio Sangati – che ha deciso di mettere per il momento da parte il suo lavoro d’attore – ha collaborato alla Modestia di Rafael Spregelburd. Abbiamo dunque deciso di dare loro spazio, in piena libertà, proponendogli due testi – rispettivamente L’innesto di Pirandello e L’inappetenza di Spregelburd – che, volendo, presentano qualche legame con gli altri due presi in esame, Pornografia di Witold Gombrowicz e Commedia di matti assassini di Giuliano Scabia. Per quanto riguarda il gruppo prescelto, quest’anno sono presenti alcuni attori che hanno già frequentato il Centro in passato, come, per fare solo i primi due esempi che mi vengono in mente, Francesca Ciocchetti e Clio Cipolletta. In particolare la Ciocchetti è ritornata più volte nel corso di questi dieci anni, e questa continuità la considero molto importante, anche per coloro che affrontano l’esperienza per la prima volta.
Quali sono gli elementi comuni tra le quattro opere, che appartengono ad autori assai diversi tra loro, oltre che lontani per biografia e contesto?
Non vorrei sembrasse che i fili tematici siano stati il motivo della scelta. Non si tratta affatto di quattro titoli a tema, però – e, ripeto, volendo – non sono neanche pescati a casaccio come i numeri del lotto. Ma prima si scelgono i testi e poi si trovano i legami. O almeno questo capita a me, che ho la tendenza a lavorare più in estensione che in profondità, per cui mi viene naturale considerare i testi come le ciliegie: uno tira l’altro. Comunque, se vogliamo proprio individuare delle connessioni, i temi ricorrenti sono l’erotismo e il crimine. In Pornografia, che è l’opera che conosco meglio, c’è, in forma assolutamente non realistica, un’identificazione dell’erotismo nella morte, che non è necrofilia: il crimine coincide con il momento della voluttà. La commedia di Pirandello, dal titolo sbagliato, perché l’innesto non ha niente a che vedere con quello che accade – sarebbe come se la protagonista generasse un trapianto di fegato o di cornea, e invece si tratta proprio di una riproduzione a tutti gli effetti – ha anch’essa al centro una violenza e un atto sessuale. Nella commedia di Scabia poi ci sono cinque matti, ognuno dei quali ha ammazzato qualcuno, nella maggior parte dei casi l’amante, la madre, la figlia: sono dunque per lo più crimini legati a contesti generativi. Ed eros malato e maternità sono gli elementi centrali dell’Inappetenza. Tutto ciò indubbiamente è presente, però ce ne siamo resi conto soltanto dopo la scelta. Quindi si possono sì trovare dei nessi a posteriori, ma nel lavoro concreto preferisco che ogni cosa vada per conto proprio per scoprire altre valenze e nuclei tematici diversi.
Passando a parlare di Pornografia, su cui ti sei concentrato, vorrei sapere qual è, a tuo parere, il tema-chiave del romanzo.
Be’, la cosa più chiara è quella che ha detto Gombrowicz stesso: due signori di mezza età restano affascinati dall’incontro con un ragazzo e una ragazza e si stupiscono della reciproca indifferenza dei due, mentre loro immaginano le infinite potenzialità erotiche di questa (non) coppia. Quindi, a una prima analisi, verrebbe da dire che si tratta di un rapporto fra vecchi e giovani. Ma parlare di scontro generazionale, nel caso di Gombrowicz, è un’idiozia. Forse può funzionare come “copertura”, ma le equazioni giovinezza=immaturità, anzianità=maturità sono smentite dallo stesso autore, che afferma che si può essere immaturi a cinquant’anni. Quindi la relazione che si instaura tra queste persone – da una parte Witold e Federico, dall’altra Carlo ed Enrichetta – è molto più sottile e profonda, e assolutamente non generazionale.
Nel corso del lavoro di analisi del testo, più volte hai esortato gli attori a non “raccontare”, ma a restare invece distaccati da quanto dicono.
Per forza. Dico innanzi tutto due ovvietà: la prima è che la trasposizione di un romanzo sulla scena è di per sé un fatto di comunicazione teatrale. La seconda è che già il romanzo è un finto racconto. È come se Gombrowicz volesse far passare per vera una situazione cui ha assistito, quando invece non ci ha assistito per niente. Pornografia è un romanzo abbastanza particolare, in cui l’autore, che si nomina ripetute volte – “io”, “Witold”, “lo scrittore” – si fa protagonista di una truffa, narra come propria un’esperienza che non ha vissuto. Se si legge un racconto fantastico di Hoffmann, per esempio, si sa che anche quando lo scrittore parla in prima persona si tratta di una finzione. Qui viceversa no: l’autore si chiama in causa con il proprio nome, qualche volta ci aggiunge anche il cognome e di fatto contrabbanda per reale una vicenda che non lo è affatto. Quindi il racconto di per sé non sarebbe legittimo, al di là del fatto che il teatro di narrazione non mi piace, anzi mi annoia, a meno che non sia narrazione di fatti reali, che hanno una loro collocazione e una loro sostanza concreta. Quando si tratta di letteratura, letteratura deve rimanere.
Da quello che dici deriva anche l’indicazione, più volte ribadita, di evitare le descrizioni a favore invece delle immagini.
Quasi sempre nel romanzo le descrizioni sono un puro riflesso, servono a qualche altra cosa. Si descrivono le cose come appaiono in quel momento a qualcuno e per un certo motivo. Non c’è mai ricerca dell’oggettività, come se ci trovassimo di fronte a un’opera di Zola. Questo è anche, in parte, il fascino di Pornografia, nel panorama delle opere letterarie del XX secolo: qui il flusso di coscienza non c’entra per nulla. Gombrowicz tende sempre a schiaffare l’inconsapevole lettore all’interno di un meccanismo singolare e perverso.
Durante le sessioni di lavoro, hai più volte messo in chiaro che non c’è mai rimpianto della giovinezza, da parte di Witold e Federico. Questo ha messo in crisi l’idea che mi ero fatto (e non credo di essere il solo), che cioè entrambi provino se non nostalgia almeno rimpianto del tempo perduto.
Io sono assolutamente convinto che non vi sia affatto né nostalgia né rimpianto. Perché ci hai letto qualche nostalgia della giovinezza? Hai l’impressione di due personaggi che abbiano avuto una giovinezza da rimpiangere? Proprio per niente. Sono due figure letterarie che nascono vecchie! Questo concetto ho dovuto sottolinearlo più volte per evitare che gli attori si indirizzassero verso qualcosa di molto più accettabile, le cui motivazioni potessero avere delle radici personali. Nel libro non c’è alcuna ombra di ciò che noi chiamiamo nostalgia, tenerezza, rimpianto. Anzi, al contrario da parte dei due protagonisti viene messa in atto una vera e propria aggressione alla giovinezza altrui, che è tutt’altra cosa. Assistiamo al tentativo di trasformare o perfino distruggere la giovinezza degli altri.
Qual è l’essenza pornografica del romanzo?
Fra le tante categorie in cui si suddivide la pornografia qui siamo ovviamente in presenza di voyeurismo. Ma attenzione: il vero voyeurismo pornografico è quello verso se stessi. La scena davvero pornografica è quella in cui vengono lette le lettere che Federico scrive a Witold. Quella mi sembra la chiave di tutto il romanzo, che è costruito in una forma abbastanza evidente ma tutt’altro che grossolana. E l’evidenza sta nel fatto che i due personaggi sono in realtà uno solo. Le due figure coincidono, e durante la lettura di quelle lettere c’è una specie di confessione dell’autore all’ipotetico lettore. Mi sembra che la vera pornografia consista nello sguardo sulla propria schifezza, non su quella altrui. Anche perché in tutto il romanzo viceversa si ipotizza negli altri un tipo di erotismo che invece non c’è.
Un altro tema emerso durante il laboratorio è quello dell’indifferenza di Witold (e del suo doppio) per tutto quello che accade loro attorno.
L’indifferenza dei due è generata dal fastidio dell’autore per tutto quello che riguarda la storia e l’ideologia. L’inizio del libro, da questo punto di vista, ha un valore programmatico: Dio, Nazione, Patria, Proletariato sono definite delle “fu chiacchiere”. In questo modo Gombrowicz mette una pietra tombale su questi nuclei semantici e comincia a parlare d’altro. Direi quindi che più che di indifferenza si tratta addirittura di rimozione.
Non è certamente la prima volta che trasporti opere narrative a teatro. Che specificità ha Pornografia rispetto agli spettacoli del passato?
Per spiegarmi meglio faccio tre esempi. Il primo riguarda I fratelli Karamazov, che in realtà costituisce una vera e propria sceneggiatura. È un’opera dialogatissima, i personaggi sono molto chiaramente differenziati, tanto è vero che tutti – Alëša, il padre, per non parlare di Ivan – sono diventati dei modelli. Un romanzo del genere “chiama” quasi naturalmente la messinscena: in quel caso si è trattato proprio di una trasposizione scenica, che avevo suddiviso in tre parti – anche se la terza non l’ho mai realizzata – per un totale di due spettacoli di sei ore l’uno. Operazione diversa è stata quella che ho costruito per Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana: lì era lo stesso linguaggio che reclamava la voce. Durante la preparazione, in molti mi dicevano che sarebbe risultato incomprensibile, tanto difficile era da leggere. Io rispondevo sempre che a mio parere era difficile da leggere perché si trattava di una scrittura che parte dalla voce, e quindi rompe le regole della sintassi letteraria: riportando tutto, comprese le parti narrative, nel loro luogo d’origine, che è la bocca, la comprensione sarebbe stata immediata. E così è stato, o almeno mi sembra. Più difficile è stato il caso di Quel che sapeva Masie. Devo dire che l’esperimento è riuscito solo a metà: se avessi cercato di sviluppare il romanzo fino alle estreme conseguenze, forse lo spettacolo sarebbe stato migliore. A un certo punto abbiamo incontrato un certo tipo di prolissità che ci ha creato qualche problema. Comunque tutti questi, nella diversità della loro genesi e dei loro esiti finali, sono esempi di realizzazioni sceniche di opere non teatrali. La direzione che prenderà Pornografia ancora non è ben definita. Nelle sessioni laboratoriali ci siamo presi molto tempo per assimilare il testo, partendo dalla drammaturgia che ho costruito operando dei tagli rispetto al romanzo senza tuttavia alterarne una virgola. L’unica cosa sicura è che gli elementi fondamentali saranno il parlato e l’azione teatrale, mentre pochissimo peso avranno invece scenografia, costumi, musica, luci ecc. ecc.
Dopo aver assistito ad alcune giornate di lavoro mi è sorta l’idea, un po’ paradossale, che un romanzo come Pornografia possa essere compreso fino in fondo solo a teatro…
Questa è anche la mia impressione. L’opera di Gombrowicz, pur essendo certamente un romanzo, usa la forma narrativa per costruire una sorta di diario intimo. Per questo l’aggettivazione, il filo sintattico assumono un rilievo molto maggiore quando si tirano fuori tutte le implicazioni e le trappole che sono nascoste al suo interno. Alla lettura si rischia invece di prendere tutto per moneta sonante. Mi sembra invece che l’autore proponga al lettore un doppio invito: seguite la storia, oppure perforatela. E questo doppio invito a teatro emerge con estrema forza.
Sono rimasto colpito da una tua frase: “Io improvviso sempre”. Che cosa vuol dire per te improvvisare, durante il lavoro con gli attori, dato che invece si ha l’impressione che tu sappia già tutto?
È proprio per questo che posso improvvisare, che non significa affatto andare a caso. Per me l’improvvisazione è fare un salto istantaneo nel territorio giusto. E questo non implica tanto il conoscere benissimo il testo che si affronta quanto conoscere benissimo prima di tutto il mondo, la gente, le relazioni. In una parola, conoscere bene i territori. Perché non è che un’improvvisazione, per il solo fatto di essere tale, sia sempre giusta. Di solito si pensa che se una cosa è improvvisata e proviene dal sé allora va per forza nel verso giusto, e questo è un errore, perché il sé è fallace: i piedi si possono anche mettere nell’appartamento sbagliato.
Chiudendo il cerchio e tornando alla struttura dei laboratori di quest’anno, vorrei sapere se ritieni utile per gli attori mettersi contemporaneamente al servizio di più declinazioni drammaturgiche.
Assolutamente sì. Penso che quanto più un attore si crea un proprio linguaggio tanto più si intrappola da solo. Bisogna invece essere dei lettori perspicaci, e sapersi adattare al tipo di lettura che viene proposto. Non leggere tutto secondo se stessi. Cosa non facilissima per un attore, per cui la tendenza primaria non è liberarsi dell’immagine che ha di sé. Ho sempre creduto che questo sia non tanto un fatto artisticamente negativo, ma in primo luogo esistenzialmente pericoloso. Se io avessi voluto a tutti i costi imporre l’idea di me che io ho, probabilmente sarei stato un disgraziato, un infelice e un frustrato.
Come Bosch fotografa la dissoluzione morale medievale, così l’autore argentino cerca di rendere testimonianza della caduta di un altro ordine, quello moderno che, perdendo il centro, impedisce deviazioni e trasgressioni in assenza di leggi fondanti.
Si tratta del testo più breve, e, in un certo senso, del più fedele alle idee base dell’Heptalogia, racchiudendo al suo interno il concetto contraddittorio di opera breve (densa) all’interno di un mondo saturo-complesso. Non va quindi scambiata per uno scketch o un insieme di numeri (è l’esatto contrario), quanto come prototipo dell’intera Heptalogia. Spregelburd, a posteriori, la paragona ai primi telefoni cellulari, giganteschi e, tuttavia appena evoluti per svolgere la loro funzione comunicativa. In questo senso è possibile rintracciare al suo interno, in nuce e in forma sintetica, i tracciati che si svilupperanno successivamente (in forma ipertrofica) nei testi successivi:
– L’idea di scrittura come creazione di un dizionario deviato, codice di significazione, tanto bizzarro per lo spettatore, quanto naturale per i personaggi.
– La molteplicità dei campi di attenzione simultanei.
-L’apparente sfocatura della drammaturgia, come deviazione da un centro anteriore, precedente e mancante.
Inoltre L’inappetenza sviluppa in modo autonomo un procedimento basato su ciò che si è portati a dedurre erroneamente quando l’informazione che viene fornita è monca. Si tratta anche di un vero e proprio esperimento sulla percezione teatrale: Spregelburd concepisce la mente dello spettatore come una spugna attiva, istigandolo a completare l’incompleto.
Per quanto riguarda il legame con la lussuria, l’autore sottolinea come oggi pur parlando continuamente di desiderio, non si assiste quasi mai alla sua soddisfazione: il desiderio viene esibito molto, ma sembra che il suo fascino si conservi nel non consumarlo mai (“nel non mangiare niente dal piatto” per usare le parole di Spregelburd).
Il primo obiettivo che ho cercato di mettere a fuoco è stato proprio non scivolare sul testo, non lasciare indietro nessun aggancio, nessun termine, nessuna espressione. Abbiamo tentato di fare in modo che tutto ciò che alla lettura sembrava enigmatico fosse invece percepito chiaramente dallo spettatore. E che quindi tutto lo spettacolo si trasformasse in quello che secondo me è, cioè un’operazione sulla percezione dello spettatore, partendo dal presupposto che Spregelburd si diverte a giocare con l’ambiguità che in teatro si crea quando si nasconde qualcosa. Ma perché questo gioco funzioni non è sufficiente “dire” il testo, o dipanarlo così come è stato scritto. È invece necessario che tutte le possibili esche che permettono di calamitare l’attenzione del pubblico siano continuamente stimolate. Da un lato dunque abbiamo sviscerato una concezione “macro” della messinscena, che si sviluppa appunto tramite passaggi nascosti e successivi disvelamenti. Dall’altro, con gli attori abbiamo lavorato di cesello, concentrandoci sulla resa pratica e soffermandoci su ogni singola soluzione tecnica. Il tutto sta in un equilibrio estremamente delicato, e basta sbilanciare in un punto il testo per perdere l’aggancio degli spettatori. La drammaturgia spregelburdiana è un materiale allo stesso tempo straordinario e delicatissimo, e ogni volta che si tocca da una parte si deve assestare dall’altra. Bisogna poi tenere conto del fatto che queste pièce sono state composte in un contesto particolare come quello della Buenos Aires di oggi, in cui il teatro ha delle condizioni produttive di un certo tipo, lontane dalle abitudini europee, e dove anche la stessa formazione degli attori presenta caratteristiche specifiche e in un certo senso anomale. Si trattava di trasformare il materiale in funzione di un pubblico italiano, con un preciso tipo di immaginario e di aspettative, cui si unisce anche una certa assuefazione allo Spregelburd-style, che da noi è in gran voga negli ultimi tempi. Per restituire dunque il materiale nella sua funzione dirompente di operazione percettiva sullo spettatore – operazione che io trovo fondamentale, visto anche lo stato della drammaturgia attuale – bisogna reinventarsi un modo di metterlo in scena. E avendo a disposizione un cast di attori di altissimo livello – a cominciare da Francesca Ciocchetti nei panni della protagonista – l’occasione per interrogarsi sulle modalità di restituzione del testo era troppo ghiotta, considerando anche che – immersi nel laboratorio di Santacristina – non vivevamo l’ansia di costruire uno spettacolo compiuto, sentendoci assolutamente liberi di sperimentare.
A Spregelburd si è aggiunta anche una riflessione, condivisa con Luca Bargagna, sulla Commedia di matti e assassini di Giuliano Scabia.
L’obiettivo in quel caso era trovare il modo di rendere quel testo (e quel linguaggio) efficace, e quindi parlante. Per ottenere questo risultato, grazie ai consigli di Ronconi, abbiamo cercato una strada che si concentrasse sull’esecuzione più che sull’interpretazione della partitura verbale. I cinque matti assassini sono presi per quello che dicono, sono come degli schermi che trasmettono messaggi. Ma questi messaggi, ridotti alla loro essenzialità, alle loro connessioni elementari, parlano molto di più di qualsiasi soluzione interpretativa convenzionale. E questa è stata davvero una bella scoperta. Abbiamo sbattuto la testa più volte prima di trovare una chiave di lettura convincente. Dopo averla individuata, nel corso del laboratorio abbiamo però cercato di non rendere il tutto monotono, domandandoci sempre che tipo di tenuta potesse avere il tipo di soluzione da noi scelto. Anche in questo caso – come già nell’Inappetenza – il gruppo di attori con cui abbiamo lavorato si è messo totalmente a disposizione, pure di fronte a richieste inusuali da parte nostra. Perché l’abitudine a lavorare in modo convenzionale e “interpretativo” su un testo (e in particolare su un testo poetico come quello di Scabia) è talmente radicata che per approcciarvisi in modo diverso si deve violentare un meccanismo consolidatissimo. Recuperare la propria libertà è assai faticoso, e in questo contesto la supervisione di Ronconi si è fatta sentire, anche attraverso suggerimenti a prima vista semplicissimi, ma destinati in realtà a rovesciare le nostre stesse posizioni di partenza.
Naturalmente lo sguardo che il Maestro riserva ai suoi copioni non è mai pedissequamente illustrativo, ma è sempre un corpo a corpo antagonistico, una lettura a contropelo, che ha il coraggio – nel nostro caso – di rinunciare alle cadenze più datate della scrittura pirandelliana, valorizzando appieno il nucleo profondo del testo. Ed è questa la lezione che il Maestro consegna a Luca Bargagna, il giovane regista responsabile diretto del laboratorio pirandelliano. Comincio esemplificando con la scena quinta del secondo atto, che ho visto – insieme a poche altre sequenze – nel corso di una tre giorni ai primi di settembre 2012 a Santacristina, nel cuore dell’Umbria.
Il dialogo – qua e là oggettivamente un po’ melodrammatico – risulta snellito; vengono eliminati accenti di candore e malizia, e qualche segreta carezza di Giorgio che Laura suscita e mostra al tempo stesso di reprimere. Bargagna utilizza la nuda elementarità del salone laboratoriale, innestato intorno a un pilastro centrale, cui si appoggia il giovane Gabriele Falsetta.
L’attore e il regista scavano nel testo, scoprono che i verbi privilegiati dal personaggio sono piegarsi, cadere, cedere, chiudere gli occhi, accettare, vincersi. C’è una sorta di subalternità, di sottomissione di Giorgio alla moglie, al di là della apparenza delle sue dichiarazioni altisonanti, che Falsetta traduce optando per una posizione spesso flessa, strisciante, o addirittura carponi. Pirandello nasconde a fatica l’essenza profonda del dramma, che è scontro archetipico fra il femminile e il maschile, fra il destino alla maternità della donna e il piccolo egoistico edonismo dell’uomo. Giorgio vorrebbe che la moglie abortisse perché il figlio è frutto dello stupro, ma Laura insegue la maternità senza se e senza ma. È un combattimento crudele, spietato, mortale, ma anche indicibile, che dunque emerge dal silenzio. In Pirandello i protagonisti non hanno mai un profilo lavorativo, sono sempre benestanti. Ciò che li ossessiona è una condizione esistenziale, un rovello mitico o metafisico, chiamiamolo come vogliamo. The rest is silence, è l’ultima battuta di Amleto, e il silenzio è propriamente il preludio del recitativo pirandelliano. Nei suoi dialoghi le parole arrivano a fatica a rompere il silenzio. Giorgio stenta a parlare (“Ma come? tu parlavi con… Che forse è venuta a dirti qualche cosa?”) perché stenta a capire cosa succede, non comprende perché Laura si sia incontrata con Zena, la sua antica amante contadina. Falsetta parla sibilando, appoggiato con una mano al pilastro collocato al centro del salone, tutto sghembo, insicuro, e comincia a muoversi disegnando un semicerchio, rasente ai muri, per arrivare a Laura, la quale sin dall’inizio della scena è seduta per terra, la schiena appoggiata alla parete, a gambe aperte, anzi spalancate, in una positura da travaglio, in attesa del parto. Il lavoro laboratoriale individua e fissa in un’immagine sintetica il nucleo segreto del testo pirandelliano. Lucrezia Guidone è una Laura intensa, che alle domande affannate del marito risponde (“Per un capriccio… per una curiosità…”) con un sorriso disteso, con l’attitudine beata di una divinità tellurica.
La ricerca teatrale non si esaurisce tuttavia nella messa a fuoco della centralità del grande fantasma materno. La scena quinta del secondo atto è anche una sequenza erotica, e Bargagna la disegna con efficacia e originalità. Scompaiono i tremori e i turbamenti un po’ caramellosi della lettera pirandelliana, ma ne resta lo spirito, espresso in una gestica semplice e istintiva, in qualche modo animalesca: Giorgio procede strisciando a quattro zampe verso Lucrezia Guidone, che non è solo figura di Dea Tellus, ma è anche concreto oggetto del suo desiderio, ne afferra un braccio e sembra scorticarlo anziché accarezzarlo. Il contatto amoroso è anche una sorta di lotta, di pulsione a sopraffare l’altro. L’immagine amorosa conclusiva è una fotografia che coglie prima Laura sopra Giorgio, e poi Giorgio sopra Laura, allacciati in una mimesi di coito. S’intende che non è casuale che sia Laura la prima a sottomettere il partner. Che è poi un modo di riconfermare il linguaggio pirandelliano che evidenzia la subalternità di Giorgio alla sua donna.
Sono stato solo tre giorni scarsi a Santacristina, e ho assistito a un numero limitato di scene, che potranno ovviamente modificarsi, se e quando il laboratorio diventerà spettacolo. D’altra parte un laboratorio è un laboratorio, uno spazio-tempo dove si cerca, si trova, si cambia, si abbandona, si riprende. Ho visto un eccellente Dottor Romeri impersonato da Giovanni Crippa (Ronconi, si sa, ama mettere in contatto generazioni di attori diversi, giovani e giovanissimi, appena usciti dalle migliori scuole di teatro, con professionisti di lungo corso, come è il caso di Crippa) che incorpora dentro lo spettacolo, facendola sua, come fosse una propria battuta, la recensione che Gramsci dedica all’Innesto. Una cronaca non totalmente stroncatoria: riconosceva l’interesse del tema affrontato, ma con molte riserve sul linguaggio. Tocca al Dottore assumerla nel suo recitativo perché il personaggio è uomo di scienza, e dunque gli si confà – metateatralmente – uno sguardo critico sul testo pirandelliano. Ho visto Crippa provare la scena con la madre, III,1, in due modi diversi. In un primo caso seguendo il testo, ma sbalzando fuori dal copione le nervature che riportano al suo passato di ex medico militare. Così, sulla battuta “Nossignori! Il medico ha il dovere di salvare…”, Crippa si immobilizza di scatto, battendo i tacchi, sull’attenti, gridando la battuta come fosse un ordine di caserma, per una giusta associazione Nossignori/Sissignore che appartiene al linguaggio militare. Oppure ancora, inchiodandosi al pilastro della sala, come vittima di fucilazione, a illuminare il punto in cui Pirandello evoca il paradosso dell’omicida salvato dal medico per essere poi condannato a morte (“Per farlo uccidere, a freddo, da chi ha imposto a me un dovere che diventa infame”). Storicamente il codice penale militare prevedeva in Italia la condanna alla fucilazione. Ma in una variante era proprio il passato di ex medico militare ad essere espunto dal racconto dialogico.
* * *
Ho cominciato dalla fine, mentre avrei dovuto iniziare dai Sei personaggi, ma solo perché ho visto i Sei personaggi un mese dopo, nell’ottobre del 2012, in una replica milanese. Poco importa. Forse L’innesto diventerà esso pure una produzione teatrale, così come è successo ai Sei personaggi, lungamente elaborato a Santacristina tra 2010 e 2011, e trasformatosi in spettacolo in collaborazione con l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e il Piccolo Teatro di Milano.
L’operazione è la stessa: Ronconi prosciuga il testo, come Bargagna (non a caso assistente alla regia dei Sei personaggi) fa con L’innesto. Viene molto sfoltito il côté metateatrale (il mondo degli attori, i loro limiti culturali, lo scontro con i Personaggi); scompare parimenti la gabbia naturalistica del palcoscenico nudo, il cupolino del Suggeritore e quant’altro. La scenografia del Piccolo Teatro Studio è poco più dello spazio originario di Santacristina, dove i Sei personaggi sono nati: una scatola scenica asettica, con qualche sedia e un tavolino. Gli interpreti sono i giovani dell’Accademia, con le loro facce, senza trucco, pronti a impersonare Padre e la Madre, oppure, nonostante i loro vent’anni, le figure del Giovinetto e della Bambina.
Pirandello ha costruito un testo-labirinto, a cerchi concentrici, per nascondere il fantasma incestuoso. Una figlia che non è una figlia, ma è una figliastra (meccanismo di attenuazione della colpa chiarissimo, messo in luce a suo tempo da Leonardo Sciascia). Un rapporto incestuoso che non si consuma, bloccato all’ultimo dal grido della Madre. Una storia che è rifiutata dal suo Autore, e che il Capocomico (figura vicariale dell’Autore) non riesce a portare a conclusione. E infine l’ultimo cerchio concentrico, il meccanismo del metateatro come ulteriore artificio, teso a occultare un plot troppo scandaloso (una osservazione felice di André Bouissy). Ronconi comincia scardinando la corteccia esterna, rinuncia – come si è detto – proprio alla dimensione metateatrale, e finisce colpendo al cuore la grande scena tabù dell’incontro fra Padre e Figliastra nella casa-bordello di Madama Pace.
Per definire il modo di porsi e di atteggiarsi dei personaggi, la critica ha parlato di rettili, ragni, insetti. In effetti c’è uno zoccolo duro nella scrittura pirandelliana, uno strato veramente verminoso, e dunque è normale che i protagonisti – Massimo Odierna (in alternanza con Luca Mascolo) nel ruolo del Padre, e Lucrezia Guidone, di cui ho parlato a proposito dell’Innesto, in quello della Figliastra – striscino spesso per terra come vermi. È una scelta che discende da una lettura sottile dell’opera del nostro. Pulsioni inconfessabili premono nel chiuso recinto dei Sei personaggi. Il tormentone del Padre (“non ancora tanto vecchio da poter fare a meno della donna, e non più tanto giovane da poter facilmente e senza vergogna andarne in cerca”) è solo la punta dell’iceberg. Una spinta istintuale che apre uno squarcio sull’“inconfessabile”, come lo chiama il Padre, che così continua: “Si cede, si cede alla tentazione; per rialzarcene subito dopo”. Ecco, direi che Ronconi coglie felicemente in questo interstizio minimale della battuta l’indicazione dell’alto e del basso, il suggerimento per il diverso posizionarsi degli interpreti. Pirandello è un laico profondamente condizionato dalla tradizione cattolica. E dunque il peso della carne, il trascinamento verso il basso, la caduta: sono tutte metafore che si traducono in immagini sceniche illuminanti e fulminanti, le quali valgono tanto per il Padre quanto per la Figliastra. Il Padre che si abbassa a cercare il proprio piacere in una casa di piacere; e la Figliastra che si abbassa a vendersi per sopravvivere.
Con audace gesto avanguardistico Pirandello si accontentava di realizzare la scena tabù in un contesto di oggetti di risulta, fondi di magazzino reperiti dal Trovarobe (letto a sedere, tavolino, paravento, attaccapanni, busta cilestrina); Ronconi va più avanti, azzera completamente, mette a fuoco la scena nella sua essenza pura di rapporti interpersonali, limitandosi a illuminarla, in senso metaforico e letterale. A Ronconi basta circondare di una luce bassa, radente, un quadrato immateriale, ritagliato entro la scatola scenica, una sorta di ring circondato in due punti disposti in diagonale da attori e Personaggi: i primi raccolti in gruppo in fondo a destra (degli spettatori); i Personaggi, raccolti in gruppo in proscenio a sinistra. La Figliastra è seduta per terra, chiusa e raggomitolata, con le ginocchia davanti al viso, occhi bassi, capo coperto da un cappellino nero, a lutto come il vestito. Solo l’evidenza delle ginocchia in bella vista vale a suscitare il palpito di una nota seduttiva.
Lucrezia Guidone è una ragazza avvenente, che ha tutto il physique du rôle per offrirci una Figliastra attraente, fascinosamente maliarda, ma si guarda bene (e con lei Ronconi, ovviamente) dal puntare su questo pedale stilistico. In questo primo fermo-immagine ciò che si impone è un blocco nero di solitudine e di sofferenza. In altri punti La Guidone arrochisce la voce (che si fa quasi maschile); si muove spesso inarcando le spalle, camminando in modo sgraziato. Si imbruttisce volutamente, rifuggendo da ogni posa sexy; sembra una ragazzona cresciuta male, con risate talvolta da ebete. Il senso è sempre quello: la foia cieca della carne, la pulsione sorda, istintiva, animalesca, che non necessitano di abbellimenti, di fronzoli. In questa cupa attrazione fatale – fra il vecchio e la giovane – la donna non ha bisogno di nulla – né di bellezza né di grazia – per calamitare a sé l’uomo. È la carne fresca che attira la carne vecchia; ed è il gusto malsano dell’incesto, il comando sulla vittima che eccitano, e poco importa che si tratti di una bambinona goffa o anche un poco handicappata.
Certo, non c’è traccia di morbida galanteria più o meno livida cui la tradizione scenica ci ha a torto abituato. La Figliastra e il Padre si muovono sotto lo stimolo di sollecitazioni grevi, bestiali, sembrano animali che si annusano prima di accoppiarsi. La Figliastra si trascina per terra avanzando carponi, e il Padre la segue, dietro le di lei spalle, come volesse possederla more ferarum. Oppure possiamo osservare il Padre disteso per terra, accanto alla Figliastra in piedi, anzi, propriamente con la faccia accanto ai piedi di lei, gli occhi fissi sulle gambe della ragazza, come a soddisfare la sua natura segreta di voyeur, a scrutarla sotto la gonna, dal basso in alto. O ancora, in un altro punto, il Padre giace accovacciato in terra, un mucchio di carne raccolta, confusa, informe. E la Figliastra va a gettarsi sopra di lui, con la sua testa sopra la testa di lui, mucchio di carne sopra mucchio di carne, senza ombra di un gesto di desiderio o di seduzione. E, infine, nel momento del contatto incestuoso, non già Padre e Figliastra in piedi, uno di fronte all’altro, le braccia della donna intorno al collo dell’uomo, e la testa appoggiata su petto del Padre, come nella garbata tradizione scenica, ma la Figliastra sdraiata per terra, supina, con le gambe aperte, e il Padre sopra di lei. La battuta pirandelliana della Figliastra resta intatta (“Stando così, […] le braccia così al suo collo, mi vedevo pulsare qui, nel braccio qui, una vena”) ma con i due distesi in orizzontale anziché eretti in verticale. Non un incesto sfiorato bensì un incesto consumato. Arriva, sì, il grido della Madre che dovrebbe valere a impedire l’incesto, ma è solo un sussurro (“Bruto, bruto, è mia figlia! Non vedi che è mia figlia?”), che fuoriesce, roco, nel tacito terrore degli spettatori del Piccolo Teatro Studio, i quali prendono improvvisamente coscienza che la superficie del testo è stata perforata, che Ronconi ha raggiunto il livello profondo della scrittura pirandelliana. Il Padre, strisciando all’indietro, sempre prono, si allontana dalla Figliastra, per così dire esce dal corpo di lei, in un silenzio denso e attonito.
In questa sua ultima stagione – sul margine della malattia e del dolore che fatalmente accompagnano la vecchiaia – Ronconi sembra interrogarsi sul senso della vita, sull’impasto di pulsioni oscenità violenze ipocrisie che stringono da presso il destino dell’uomo.
Qual è stato il vostro approccio a questa commedia abbastanza poco conosciuta?
Sin dall’inizio si sono delineate chiaramente due necessità: la prima consisteva nell’uscire dalla cronologia e dalla sequenza degli atti e delle scene. La seconda necessità era quella di spostare l’azione da un luogo molto preciso e molto pirandelliano, qual è il salotto borghese, per posizionarla in uno spazio più vicino e in sintonia con il nostro tempo. Per risolvere queste due questioni preliminari – che altrimenti si sarebbero rivelate un pesante vincolo – abbiamo operato uno smontaggio delle scene, lavorando per frammenti. E questo non tanto per prendere le distanze da Pirandello ma per verificare la possibilità di arrivare alla radice della pièce. Il nucleo più profondo è infatti l’elemento più interessante e tuttora scabroso e scandaloso. Stiamo parlando di uno stupro da cui deriva un fatto generativo, perché Laura, la protagonista, resta incinta. Nella nostra analisi siamo partiti anche dall’articolo di Antonio Gramsci, che svela ciò che Pirandello non voleva o non poteva esplicitare. La recensione gramsciana ci è sembrata così illuminante che l’abbiamo inglobata nella nostra drammaturgia, mettendo in bocca le sue parole al dottor Romeri, interpretato da Giovanni Crippa. Uno dei vantaggi del lavorare per frammenti è quello di avere un maggior margine di libertà: siamo infatti partiti dal fatto che tutti i personaggi fossero a conoscenza di quanto era successo, vale a dire della violenza sessuale subita da Laura. Di fronte a questa consapevolezza generale, rispetto a questo evento traumatico si sono innescati da una parte meccanismi di difesa e copertura, dall’altra di elaborazione di quanto accaduto. La violenza subita da Laura innesca tutta una serie di reazioni, soprattutto da parte del marito Giorgio ma anche da parte della stessa protagonista. L’esperimento che abbiamo tentato è consistito nel vedere fino a che punto queste reazioni reggessero e soprattutto dove portassero. Abbiamo inoltre fatto nostra l’idea che Laura abbia deciso, in maniera spontanea, di mettere in conto uno stupro al fine di rimanere incinta, e questo ci ha permesso uno spostamento in avanti. Nella nostra interpretazione si tratta di un atto di volontà, il che ci ha consentito di restare fedeli alla lettura tradizionale della commedia, e allo stesso tempo di portarla alle estreme conseguenze. Laura – e lo si capisce dal testo – si pone deliberatamente nelle condizioni di essere violentata per diventare madre, partendo dal presupposto che, dal punto di vista organico, non può avere figli a causa della sterilità di Giorgio.
Durante il mese a Santacristina, oltre all’Innesto hai affrontato, insieme a Giorgio Sangati, anche la drammaturgia poetica di Giuliano Scabia.
Con Giorgio abbiamo individuato delle coordinate che unificassero il nostro lavoro. La cosa più affascinante dal mio punto di vista è stata mettersi alla prova nel cercare una possibilità di messinscena per una drammaturgia che ha una sua forza intrinseca, soprattutto se considerata come testo poetico. Il percorso laboratoriale ha indagato le diverse modalità recitative con le quali si può affrontare una pièce del genere, nel cui tessuto, data anche l’assenza di un plot evidente, qualsiasi riflessione teorica sul personaggio – che probabilmente, in termini generali, oggigiorno non ha più molto senso – perde ogni significato, per cui l’attore è nudo, senza appigli. È stato dunque un lavoro fondato sull’atto recitativo. In questa direzione ci è venuto in aiuto lo stesso autore, sottolineando che i suoi cinque matti assassini, usciti da un ospedale giudiziario-psichiatrico, recitano un testo che hanno appreso a memoria. Abbiamo dunque indagato la memorizzazione come elemento fondante dell’atto recitativo, analizzando il rapporto dell’attore con la memoria. E abbiamo inoltre – anche sulla scorta dei suggerimenti di Ronconi – cercato di assecondare e favorire il più possibile una neutralità nel riportare la battuta. È stata quasi una gara di resistenza a non cedere alla tentazione di caratterizzare il personaggio, anche perché la partenza è ricca di trappole e di insidie che spingono quasi naturalmente verso il cliché del matto. Abbiamo tentato di mettere gli attori nella condizione di sentirsi liberi, deresponsabilizzati rispetto ai personaggi. La notevole estensione del testo, preso in esame in questa chiave, ci ha creato anche qualche difficoltà, perché volevamo assolutamente scongiurare il pericolo di cadere nell’esercizio di stile da parte degli attori. Nel complesso è stato un percorso decisamente istruttivo.
A volte mi chiedo: Robespierre è un rivoluzionario virtuoso (“Il terrore è la virtù”, Discorso alla convenzione, 1794), o un matto assassino?
Quando mi è parso che la commedia fosse finita ho pensato: la mando a Luca Ronconi, gli chiedo se secondo lui, che tanto ne sa, funziona. E lui l’ha messa alla prova – e come mi ha colpito il suo modo di ascoltare i testo, ogni parola, ogni suono, un mese fa, quando hanno cominciato ed ero venuto per vederli partire, lui e i suoi aiutanti e attori.
È un testo di cui non so dire che poco: è, per me, misterioso: un mistero teatrale. Di sicuro indaga, in modo a volte delicato a volte grottesco, il difficile paesaggio della mente di fronte alla grande battaglia che tutti devono affrontare, prima o poi – gli attori, i personaggi, Myrta, quei cavalieri, quel Re sono le forze (i germogli) delle visioni e della vita nella battaglia contro la morte.
Commedia di matti assassini si è andata formando, per svolte e variazioni, fra il 1997 e il 2012, mentre completavo il ciclo di Nane Oca e preparavo i Canti del guardare lontano – è un viaggio nel mondo pericoloso, nella neve onnicoprente, nel labirinto, nel deserto, nel ghiaccio, nella “foresta guasta” del mondo/mente dove improvvisamente affiorano anche la Tavola Rotonda e Re Artù. Fa parte del ciclo del Teatro Vagante (il furgone con cui i matti arrivano in teatro è il Teatro Vagante) – in ordine di tempo è l’ultimo testo, poi…
E poi non è una commedia sui matti…
Però quel demone può anche distruggerti. Se lo accetti, diventa un’ossessione che ti divora l’intera esistenza. Per questo devi imparare ad addomesticarlo e indirizzarlo, anche se sarà sempre lui a dominarti.
Scabia ha trovato la sua soluzione, per patteggiare con il demone della poesia e giocare con il linguaggio. Gli si è abbandonato con entusiasmo e ottimismo, e ha provato a cavalcarlo. Perché il poeta, come si legge sui dizionari etimologici, è «colui che crea, che fa». Così non si è accontentato di trascrivere le parole che scorrono attraverso di lui, dettate da chissà chi e chissà da dove: quelle parole ha deciso di farle diventare azione. Il suo è un teatro fatto di poesia, una poesia che si fa teatro.
In questi decenni il suo è stato un percorso eccentrico, che punta diritto alle radici del teatro e della poesia, e continua ostinato a lavorare sul rapporto tra la poesia e la forma della tragedia e della commedia. Per questo facciamo fatica a riconoscerlo: perché spingendosi fino al cuore condiviso delle arti, mette in dubbio il confine che dovrebbe separarle, e non si lascia ingabbiare.
Il demone gentile che ispira Scabia ha una potenza enorme, che lo ha sospinto verso imprese straordinarie, che lui racconta con assoluta semplicità. Per esempio quella volta – era il 1972 – che, con un Marco Cavallo, il grande totem azzurro di cartapesta, aprì i cancelli dei manicomi e se ne uscì per la città con i matti: quell’avventura, vissuta a Trieste con Vittorio e Franca Basaglia, ha cambiato la società italiana ed è finita nei libri di storia. O quando, nel 1977, in una Bologna devastata dagli scontri e sfregiata dalle prime imprese dei terroristi, trasformò la città in una grande teatro, in una sorta di rito conciliatorio, lanciando nel cielo mongolfiere di carta dalle forme fantasiose per poi inseguirle nelle strade e sui tetti.
È anche un demone testardo, ostinato, quello che cavalca Scabia, e si produce in voli di ampio respiro. Il ciclo del Teatro Vagante, salpato all’inizio degli anni Settanta con «un carrettino che mi ero comprato al mercato del Porcellino, a Firenze», inanella ora decine e decine di testi. Sono commedie, lettere e racconti, che spesso lui va in giro a raccontare da solo, nelle campagne e nelle città, perché l’istituzione del teatro – dove aveva portato i suoi primi testi – gli pesa, lo costringe (anche se poi, quando qualcuno porta in scena un suo testo in un “teatro-teatro”, è felice, orgoglioso e riconoscente…).
La necessità di uscire dal teatro – dal teatro come edificio e dal teatro come sistema – è una logica radicalizzazione delle premesse “di avanguardia” da cui era partito il giovane Scabia. Una delle pulsioni fondamentali delle avanguardie novecentesche è stata quella di invadere l’arte con la vita e invadere la vita con l’arte, di superare la contrapposizione tra attore e spettatore. Per il suo Zip Lap Lip Van Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la Grande Mam alle prese con la società contemporanea (portato in scena da Carlo Quartucci alla Biennale di Venezia nel 1965) il teatro andava «trasformato tutto in palcoscenico», per «immergere lo spettatore anche fisicamente nello spettacolo, coinvolgendolo nei rapporti che si creano tra attore e spettatore».
Il passo successivo (viste anche le difficoltà incontrate con Paolo Grassi in occasione dell’allestimento dell’Isola purpurea al Piccolo Teatro nel 1969) è stato pressoché inevitabile: uscire in piazza, «un teatro che non ha le pareti»: è nato così il Teatro Vagante, «oggetto, figura e idea del teatro», che «si trasforma e si adatta, nasce dal luogo e dalla necessità, prende vita sempre nuova con ciò che offre l’ambiente in cui si opera, la situazione nella quale ci si immerge, le persone e i luoghi con cui si entra in rapporto, in dialogo» (p. 41). Giuliano Scabia, vestito ora da angelo ora da diavolo, che attraversa e anima borghi, boschi, radure, sentieri, strade, piazze, periferie, con il suo Carro di Tespi, si è trasfigurato in una “opera d’arte totale vivente”: nella sua figura si condensa una somma di arti diverse, e la sua azione è anche una estetizzazione degli spazi che attraversa, come pure dell’esistenza dell’artista e delle persone che incontra e con cui dialoga.
La forma – o la metafora – che usa è spesso quella della festa, cara alle avanguardie, dove la letteratura, il teatro e le arti escono fuori da sé, dal loro specifico, per mescolare arte e vita: ma dev’essere una festa – avverte il maestro di cerimonie – dove è necessario «creare uno schema di azione, creare oggetti attraverso cui comunicare, pre-testi. Insegna Euripide che se non fai delle azioni, delle teletai non puoi costruire una festa, che è un atto di trasferimento. E questo è pericoloso» (www.doppiozero.com).
Quello di “avanguardia” resta però un concetto militare, e militante. L’avanguardia si nutre e vive delle metropoli, degli scontri che le attraversano, del doloroso tramestio della storia. Al mite demone di Scabia quel territorio alienato non poteva bastare, e forse non gli era nemmeno del tutto congeniale, in fondo. E allora, quasi a controbilanciare quello sguardo, Scabia l’ha portato ad abbeverarsi ad altre fonti. La prima è certo la cultura popolare: le veglie e i filò contadini, le notti passate accanto al fuoco a raccontare, a scambiarsi una parola viva e necessaria, o intonare una melodia o una canzone, da barattare magari con una ciotola di minestra. Senza dimenticare che la sua è una scrittura colta, che si collega consapevolmente al grande canone della letteratura: per la precisione, ama nutrirsi degli archetipi rubati ai miti e alle fiabe, che fanno parte della sua cassetta degli attrezzi.
È un demone che sa guardare all’indietro, quello di Scabia, fino alle origini: il compito del suo teatro di poesia è proprio quello di riconnettere lo spettatore a queste fonti. A far scattare una scintilla di anima…
Il grande volo del demone di Scabia ha lasciato un’altra traccia preziosa. È cominciato tutto nel 1972, quando Luigi Squarzina lo chiamò a insegnare in una nuova università che stava nascendo proprio allora, il Dams. È stato un insegnamento anticonvenzionale, e assai creativo: «Ho lavorato come avrei lavorato in teatro» (e infatti il percorso pedagogico incrocia spesso il Teatro Vagante). A questa missione si è dedicato con generosità: un insegnante, dice, è un po’ «uno che ha una barca e la pilota. Il pais è l’oro del mondo, e la pedagogia è la cosa più alta che esista: consiste nella ricerca comune, insieme al pais, della rotta». Il diario di bordo di questa «avventura di formazione e di autoformazione» è documentato nei trenta (ma forse sono già di più…) Quaderni di Drammaturgia, l’esplorazione di una ventina di modelli di teatri diversi, l’invenzione di «altre possibilità di teatro, non teoriche, ma tutte praticate».
Ecco per esempio, oltre al teatro delle mongolfiere, il teatro-giornale: «Partire dal giornale del mattino e nel giro di poche ore costruire una unità di comunicazione da fare per strada in diversi punti della città-rete»; la forma della commedia continua, sperimentata al festival del teatro di Nancy: «undici giorni di teatro, investendo un territorio di un centinaio di chilometri»; il sentiero come luogo del teatro, per far emergere collettivamente le figure lungo il cammino comune; l’Ottetto, «che si chiama così perché c’erano otto partecipanti, ai quali ho chiesto di partire dalle loro parole più segrete di bambino, una pratica che avevo già seguito nella mia attività poetica e di cui avevo un po’ d’esperienza: ognuno ha tirato fuori un piccolo vocabolario segreto, infantile, e da questo nucleo ha iniziato a dialogare con gli altri, con gesti e parole, finché non ne è venuta fuori una storia». C’è anche un’anticipazione del teatro di narrazione, nei Quaderni: «Nel 1978 non c’era nessuno che facesse queste cose, tranne Dario Fo. Ho messo una sedia sulla cattedra e ho detto: “Adesso mi ascoltate!” E per un’ora e mezza ho raccontato una fiaba che avevo imparato da un grande narratore, un boscaiolo, un amico, che viveva in un paesino di montagna e aveva un repertorio straordinario: e per imparare ho incontrato tanti narratori, anche in Sicilia o sull’Amiata».
Come ha raccontato uno dei suoi primi allievi, Massimo Marino, Scabia ci ha insegnato che «il teatro andava dilatato, doveva essere una domanda aperta, una sonda, un processo continuo, un intrecciare socialità. Il teatro che sognavamo non nasceva nell’istituzione teatrale: era una richiesta di diversi rapporti, di altre profondità culturali e conoscitive» (www.doppiozero.com)
Un percorso di liberazione dunque, che spinge a uscire dalle gabbie, ad abbattere muri e barriere. Senza mai dimenticare, però, che il demone ha un potere terribile: «La poesia fa risorgere le persone. Ma qualcosa dev’essere morto, perché se ne possa celebrare la rinascita».
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